Un manuale contro gli stereotipi di genere

“C’è differenza” (Franco Angeli), di Graziella Priulla, docente di Sociologia a Catania, ha l’ambizione di porsi come strumento didattico. Di [Alessandra Mancuso]

Un manuale contro gli stereotipi di genere
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28 Giugno 2013 - 15.17


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Un manuale didattico per svelare gli stereotipi, profondamente radicati nel quotidiano e nella cultura, veicolati da linguaggio, libri scolastici, informazione, media, pubblicità ma anche canzoni, proverbi, teorie, aforismi. Squallide battute sessiste di uso comune.

“C’è differenza” (Franco Angeli), di Graziella Priulla, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Catania, ha l’ambizione di porsi come “manuale di educazione di genere”. Vuole favorire una riflessione sugli stereotipi presenti nella comunicazione per sviluppare nuove modalità che contribuiscano a creare nelle giovani generazioni identità positive e paritarie.

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“Una società crea, mantiene e trasmette i suoi stereotipi, attraverso i linguaggi, tutti i linguaggi”, scrive Priulla. “Gli stereotipi ostacolano i cambiamenti. In quanto continuamente alimentati dalla cultura sociale non vengono messi in discussione, ma durano anche quando cambiano le condizioni e l’humus culturale che li ha generati. Gli stereotipi di mascolinità e femminilità (…) sono radicati nella cultura diffusa e vengono trasmessi quasi per inerzia dalle agenzie di socializzazione, famiglia compresa”. E aggiunge, parlando in un’affollata presentazione alla Feltrinelli di Catania: “nelle istituzioni si continua ad assumere che contenuti e metodi della formazione siano neutri”.

Come nasce questo manuale e a chi si rivolge?

“Nasce dal rapporto con le donne di Voltapagina, dell’Udi, le donne di Thamaia che lavorano al centro antiviolenza, a Catania… E dall’interesse che ho visto in centinaia di studentesse che hanno frequentato il seminario su identità, genere, linguaggio. La nostra scuola è tra le più femminilizzate d’Europa, con una percentuale di donne che ormai supera l’80 per cento del corpo docente, ma non è accaduto – salvo poche eccezioni – che le insegnanti si facessero coralmente carico di una cultura più attenta alle differenze di genere. Questo manuale si rivolge a loro: alle studentesse e agli studenti delle scuole superiori, e alle docenti che vogliono tener conto della dimensione del genere nella programmazione didattica”.

Nella prima parte (I concetti e la loro storia), c’è un excursus storico di come nascono e si affermano i diritti delle donne. Perché hai sentito questa necessità?

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“La nostra, quella del femminismo, è stata l’unica Rivoluzione gentile del Novecento. Eppure, nel rapporto con le studentesse, mi capita di notare che al femminismo si associano spesso giudizi negativi. E’ difficile far passare, sul femminismo, una nozione diversa da quella che è stata, ed è, veicolata dai media in modo distorto. E’ necessario passare il testimone. Un Paese privo di memoria non ha futuro“.

Nella seconda parte del libro, “Le parole, i discorsi”, tu dici che “la lingua è un bene pubblico, condizione di sopravvivenza di una comunità, né più né meno come l’acqua”.

“Non è una cosa neanche tanto originale. E’importante che la lingua venga usata in modo tale che si capisca che è patrimonio di tutte e tutti. Bisogna cominciare a parlare declinando in modo sessuato. Ho grande fastidio anche quando si antepone l’articolo al cognome femminile: la Fornero. Allora dovrei dire il Letta, il Monti…”.

Al Nord invocano il Manzoni e si difende l’uso dell’articolo che precede il cognome. E’ di uso comune.

Ma perché lì dicono anche “il Luigi”. Ma è un fatto dialettale…. Spesso però scappa anche a me. Bisognerebbe disabituarsi a dirlo, nel parlato di ogni giorno. Certo, poi in Facoltà mi chiamano continuamente “La Priulla”, mentre non si dice: ”Il vattelappesca” per un docente maschio. Bisognerebbe anche parlare del fatto che ci sono sempre più campagne, nella rete, per la trasmissione del cognome che non sia solo patrilineare: dibattito più comune in Spagna ma anche in Italia lo sta diventando. E poi, ci sono le donne che si fanno chiamare con il cognome del marito. Anche di questo dovremmo parlare!”.

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Scrivi che “un uso della lingua rispettoso della parità di genere è di fondamentale importanza per un effettivo superamento delle disuguaglianze che sono ancora un dato di fatto della società italiana e che la lingua si può rivelare un’alleata nel superamento delle discriminazioni sessuali”. Più verranno usati termini come sindaca o pretora, assessora, chirurga, ministra, soprattutto dai media, più diventerà comune e non susciterà più alcuna reazione. Ma poi c’è anche la rappresentazione nei mass media: pubblicità, programmi televisivi….alla quale dedichi l’ultima parte del libro.


La televisione italiana è un vergogna internazionale. C’è una specificità italiana, una discrepanza presente anche nei codici di autoregolamentazione degli enti radiotelevisivi: in controtendenza rispetto ad altri Paesi, qui il modello sessista è in crescita. La visione di un programma come Uomini e Donne costituisce una parte, seppur piccola, dell’educazione di genere. Un programma visto da adolescenti, ragazze e ragazzi, poco preparati a comprendere la sua finzione e a identificare la povertà delle figure di uomo e di donna presentati, la miseria delle loro relazioni reciproche. E in tutte le ricerche, risulta che Maria De Filippi è l’adulto più importante di riferimento dei quindicenni italiani. Solo la fiction, quasi paradossalmente, è il genere televisivo che restituisce alla donna qualche tratto della sua complessità e del suo reale ruolo sociale.

Qual è, secondo te, la possibile leva del cambiamento?

“ E’ indispensabile lavorare sull’immaginario collettivo. L’informazione dovrebbe aiutare moltissimo. I ragazzi non leggono i giornali ma guardano molto i siti e vedono la tv. Quando parlo con loro mi stupisce che non siano mai colpiti dal fatto che nelle trasmissioni le donne siano svestite e gli uomini vestiti. E’ normale! Mi dicono. Il concetto di normalità è terrificante. E nel web ci sono sacche di misoginia altrettanto terrificanti. Bisogna cominciare a far riflettere ragazze e ragazzi sulle consuetudini non riflesse che permangono nel quotidiano: dico sempre a loro, “perché si dice figlio di puttana e non figlio di evasore che è molto peggio?” Quando anche nel piccolo quotidiano, ci sarà un esercizio della responsabilità, e si smetterà di fare battute sessiste come “puttana Eva”, forse qualcosa comincerà a cambiare. Bisogna ragionare sui luoghi comuni, anche quelli veicolati dalla rappresentazione del femminile che fanno i media. L’immaginario quotidiano è il punto di partenza”.

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Insomma, come si legge nel retro di copertina del libro, “la speranza è che l’identità di genere entri a pieno titolo nelle istituzioni formative: il piano educativo è essenziale per la formazione di linguaggi e orientamenti che senza negare le differenze biologiche, le privino della carica di violenza, delle ambiguità e delle mistificazioni che storicamente hanno accompagnato le relazioni tra i sessi”.

C”è da augurarsi che si riprenda al più presto il progetto Polite Pari opportunità nei libri di testo. promosso nel 97 dal Dipartimento PO della Presidenza del Consiglio. La pubblicazione dei primi libri di testo contrassegnati dal marchio Polite, a partire dal 2011 rappresentò un risultato di rilevante risultato e visibilità. Ora, dice Priulla, “questo strumento di autoregolamentazione tace, e gli obiettivi sono ancora disattesi- E” un patrimonio di consapevolezze che si è indebolito”.

Abbiamo dieci anni da recuperare? C”è anche una ministra, seppur per poco, con la quale poter aprire un”interlocuzione. E interlocuzioni da aprire con le amministrazioni locali: servono travasi di sapere, convenzioni, programmi formativi e divulgativi. Portare nelle scuole competenze differenti: docenti universitarie, giornaliste. E mettere in relazione la scuola con la società.
Anche GiULiA è pronta a fare la sua parte, per creare reti e fare informazione.

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