Uno studio USA. Perché molte donne “di prestigio” si definiscono al maschile?

La rivista GSI dedica un numero monografico al circolo vizioso che si instaura tra svalutazione semantica e rifiuto di termini di genere. Di [Giovanna Pezzuoli]

Uno studio USA. Perché molte donne “di prestigio” si definiscono al maschile?
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17 Gennaio 2017 - 11.31


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Chi pensava che dire ministra invece che ministro o deprecare l’uso del maschile generico, tipo “tutti gli uomini sono mortali” (e le donne?) oppure inorridire di fronte a titoli come “Suicida a 14 anni perché gay” fosse solo un vezzo, una battaglia superflua o quantomeno di retroguardia, può ricredersi leggendo il numero monografico della rivista scientifica on line del 2016 Gender/sexuality/Italy (http://www.gendersexualityitaly.com/). L’editoriale di Nicoletta Marini-Maio, che insegna genere e linguaggio all’Università di Pennsylvania, e i contributi di numerose ricercatrici e ricercatori sottolineano come le parole siano uno strumento efficace nella lotta alle disuguaglianze basate sul genere e sull’orientamento sessuale. E sintetizzano quanto pubblicato dagli anni ’70 oggi in Europa e negli Stati Uniti, approfondendo alcuni temi in particolare, dalle asimmetrie semantiche (segretario/segretaria; collaboratore/collaboratrice ecc.) al modo in cui vengono raccontati sulla stampa i casi di femminicidio, dalle differenze fra linguaggio maschile e femminile all’introduzione di pronomi neutri (ad esempio “ze” al posto di “he” o “she”; “hir” in sostituzione di “his” o “her”) per includere tutte le persone (transgender o genderqueer) che non si identificano nel sistema binario maschile/femminile.

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In questo numero del GSI Journal, edito dal Dipartimento di Francese e Italiano del Dickinson College di Carlisle, i contributori – docenti e borsisti – con una carrellata di interventi intendono dimostrare come nella lingua italiana persistano misoginia e sessismo ma al contempo ci siano tentativi di arginarli, proponendo l’istituzione di un linguaggio più inclusivo e meno violento. Perché è inaccettabile che le parole continuino con apparente innocuità a replicare discriminazioni, reiterando gerarchie di forza e veicolando stereotipi e pregiudizi. E così l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano può dichiarare (senza timore di apparire maschilista), come ha fatto rivolgendosi al “ministro” Valeria Fedeli: “Insisto nel prendermi la libertà di reagire alla trasformazione di parole dignitose della lingua italiana nell’orribile appellativo di ministra o nell’abominevole appellativo di sindaca”. Almeno Maria Elena Boschi si è ricreduta da quel candido “preferisco essere chiamata ministro”, rivolto a Daria Bignardi durante una trasmissione del 2014, sostenendo di recente seppure con qualche esitazione di fronte a Sarah Varetto, direttrice di Sky, che “il segno del genere femminile nelle figure professionali potrebbe trasmettere un messaggio di maggiore affermazione delle donne rendendo possibile l’idea che certi ruoli di potere siano concepiti come femminili”.

È interessante la ricerca di Chiara Nardone, che basandosi sul corpus ItWaC del 2009 (uno dei più ampi disponibili per la lingua italiana) analizza se e in quale misura alcuni sostantivi femminili, designanti ruoli e professioni, siano ancora caratterizzati da un’asimmetria semantica peggiorativa rispetto ai corrispettivi maschili. E i dati dimostrano che la risposta è positiva per termini come segretaria, direttrice, collaboratrice, dottoressa e professoressa.

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Facciamo qualche esempio per questi 5 sostantivi femminili che sono utilizzati più spesso di altri, come architetta chirurga, ingegnera, medica, notaia e così via. Per quanto riguarda segretaria/segretario. I due sostantivi appaiono nel corpus in un rapporto di 1 a 16. Si nota che segretario è sempre associato ruoli di “persone che hanno alte cariche e adempiono a importanti funzioni della vita pubblica, legandosi a parole come CGIL, Stato, nazionale, Ds, partito, ONU, mentre segretaria non è associata soltanto a parole appartenenti a politica e istituzioni bensì molto spesso indica un ruolo subalterno e non di prestigio, comparendo accanto a parole come ufficio, redazione, impiegata, personale, scuola, giovane. Stesse osservazioni per direttrice/direttore, che stanno in un rapporto di 1 a 25. E se direttrice appare soprattutto in riferimento a contesti culturali (scuola, museo, biblioteca), con direttrice del carcere a rappresentare l’unica eccezione, per direttore si spazia dall’ambito tecnico a quello sanitario, dal mondo della cultura a quello politico-istituzionale (generale, dipartimento, responsabile, artistico, istituto, amministrativo, tecnico, orchestra, rivista…). Inoltre anche nel caso di direttrice, come in quello di segretaria, le forme femminili con una connotazione di prestigio sono spesso accompagnate da nomi e cognomi con enfasi su storie individuali di donne che hanno “sfondato il tetto di cristallo”, e rappresentano quindi delle eccezioni. E l’elenco può continuare: perché le collaboratrici sono sempre e solo: domestica, scolastica, familiare e molto spesso sottintendono un rapporto intimo con un’altra persona (stretta, preziosa, fedele…), mentre il collaboratore spazia in varie aree professionali (sanitaria, scolastica, amministrativa, tecnica). Quanto alle dottoresse, termine molto usato (in rapporto di 1 a 2, 5 con dottore) sono quasi sempre care, giovani e gentili, mentre i dottori sono più spesso egregi. Infine, per professoressa/professore si nota una sorta di opposizione binaria tra il sostantivo femminile, associato al mondo scolastico, e quello maschile al mondo universitario, evidenziando un’asimmetria sociale ed economica.

Curiosamente poi, se si analizzano i sostantivi femminili con frequenze d’uso più basse, ovvero architetta, procuratrice, chirurga, avvocata, che appaiono nel corpus in un rapporto rispettivamente di 1 a 97, 1 a 339, 1 a 150 e 1 a 130, appare che la maggior parte dei riferimenti sono a donne straniere che hanno raggiunto fama e successo internazionali, come l’architetta Zaha Hadid, la chirurga Maria Siemionow, la procuratrice Carla del Ponte, le avvocate Shirin Ebadi ed Eren Keskin. E le italiane? Impossibile poi analizzare la presenza di termini come ingegnera, revisora, notaia semplicemente perché non appaiono quasi mai!

Mentre dunque la resistenza alla declinazione di questi nomi implica l’uso di forme maschili che sono tuttora la norma, le forti asimmetrie semantiche dei termini più usati potrebbero essere uno dei fattori che influenzano la predilezione di molte donne per la forma maschile, anche rispetto a se stesse. Perché, come afferma la linguista Cecilia Robustelli, “la legittima parità rispetto all’uomo sembra che debba essere ratificata dalla parallela conquista del suo titolo al maschile”.

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Si instaura così un circolo vizioso per cui le donne che ricoprono incarichi prestigiosi preferiscono essere designate con sostantivi maschili perché i corrispettivi femminili sono ancora intrisi di significati lessicali che rimandano alla subalternità piuttosto che al prestigio e all’autorevolezza, e così facendo aiutano le forme femminili a restare caratterizzate da asimmetrie semantiche…

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