Le parole vengono meno, eppure bisogna trovarle. Quando lui, 17 anni, uccide lei, 16 anni, e la nasconde sotto pesanti massi, nella campagna di Castrignano del Capo, vicina Leuca, finis terrae. Salento. Qui Noemi Durini ha perso la vita per mano dell’ex fidanzato che la madre della ragazza aveva già denunciato alla magistratura, chiedendo che gli venisse impedito di avvicinarsi alla figlia, alla sua famiglia, alla casa.
I magistrati avevano aperto un fascicolo per violenza privata, ma non è servito a nulla. Non è arrivata in tempo, la legge, a proteggere Noemi, che aveva ben chiara la differenza tra amore e violenza.
“Non è amore se fa male”, aveva scritto appena dieci giorni prima di morire, il 3 settembre scorso, sul suo profilo Facebook.
Teniamolo a mente tutte noi e tutti noi, quando nei prossimi giorni scriveremo i necessari pezzi di cronaca. Non era un “fidanzatino”, come già sto leggendo su qualche giornale. E’ un assassino capace di uccidere. Non pubblichiamo le due foto accostate, di lei e di lui, realizzando il sogno violento dell’uomo che vuole eternamente legata a sé la ragazza, anche dopo la morte.
E non scriviamo che era “passione”, che “non voleva perderla”, che “non si rassegnava alla fine della relazione”. Sono tutte frasi dense di cultura patriarcale, che in fondo in fondo giustificano il femminicidio, che raccontano di una relazione in cui la donna è un oggetto da possedere.
Rompiamo per pietà questa lunga catena di parole violente, perché sennò saremo complici nel perpetuare questo impianto culturale feudale che l’assassino aveva già fatto suo, ad appena 17 anni.
E’, questa, la tragedia nella tragedia: l’orrore di assistere ad un modello tribale violento che va avanti, che si tramanda precocemente di padre in figlio e che miete vittime giovanissime.
La battaglia contro il femminicidio deve essere una battaglia di tutte e di tutti, perché siamo tutte e tutti complici e tutte e tutti creatori di quello schema culturale malato che è alla base della violenza di genere. Che va riconosciuta, detta, e raccontata con le parole giuste. Anche in nome di Noemi. Che sapeva che “non è amore se fa male”.