Più parità nell'informazione

Il Manifesto di Venezia, presentato il 25 novembre, è già firmato da più di 800 colleghi. Il presidente Fnsi: strumento di crescita culturale [di Patrizia Pennella]

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28 Novembre 2017 - 20.03


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“La distruzione delle parole è la distruzione della libertà di informazione”: Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione della Stampa Italiana va alle radici del Manifesto di Venezia, sottoscritto da giornaliste e giornalisti italiani per il rispetto e la parità di genere dell’informazione.

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Il Manifesto è stato presentato sabato 25 novembre, nelle Sale Apollinee del Teatro La Fenice, durante un incontro a cui hanno partecipato anche il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, la direttrice di Rai Teche, Maria Pia Ammirati, il direttore dell’Avvenire Marco Tarquinio, l’inviata della Rai Tiziana Ferrario e l’editorialista del Corriere della Sera Gian Antonio Stella.

“Il manifesto – secondo Giulietti – è uno strumento di battaglia e di crescita culturale: non ha carica censoria, non contiene prescrizioni, offre indicazioni culturali”.

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L’iniziativa è stata promossa ed elaborata dagli organismi di parità di Fnsi e Usigrai, dal Sindacato dei Giornalisti Veneto e dall’associazione Giulia Giornaliste ed è la somma di esperienze e percorsi che si sono accumulati nel tempo. Lo ricorda proprio la segretaria del sindacato veneto, Monica Andolfatto, che ha curato l’intera organizzazione, coinvolgendo gli studenti del Liceo artistico Guggenheim di Venezia che hanno ideato il logo e il visual del Manifesto.

Simbolicamente il dibattito parte dalle radici, con cinquant’anni di storia delle donne documentate dalla Rai e raccolte in un video che raccontano come eravamo, a che punto siamo e soprattutto quanta strada resta da fare.

Le ottocento firme sotto il Manifesto, ad esempio, sono tante, sono un traguardo:

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“Ma i giornalisti sono migliaia – sottolinea l’inviata Rai Tiziana Ferrario – non dobbiamo smettere di lavorare, ci deve essere l’impegno di tutti. In America i giornalisti hanno fatto un grosso lavoro di inchiesta e le donne hanno trovato il coraggio di denunciare. Le donne hanno raccontato e i giornalisti hanno verificato che le storie fossero vere. C’era il loro marchio di garanzia. Poi c’è il discorso della rete, che ha dato spazio alle parole d’odio e anche su quello di deve lavorare. Le donne sono le principali vittime di questo odio”.

Marco Tarquinio, direttore di Avvenire “aggancia” le parole alle storie, ai fatti: “Il problema non sono solo le parole che ci sono, ma quelle che mancano; il continente delle violenze sulle donne è un continente immenso: solo il dieci per cento viene denunciato. Ecco, questo è il problema. A Roma c’è il caso delle spose bambine, sono quasi ottanta, a Roma, non sulla luna”.

Per indagare questo mondo c’è bisogno di una cultura nuova, più che di nuove regole; ne è convinto il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna che cita il Manifesto di Assisi: “Non scrivere di altri quello che non vorresti fosse scritto di te. Non credo che ci sia bisogno di nuove norme, ma se ci sarà necessità le scriveremo. Abbiamo però la responsabilità di accompagnare con le parole la crescita civile”.

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Per farlo, ne è convinta Maria Pia Ammirati, direttrice di Rai Teche devi essere capace di investire sulle donne: “Se vuoi cambiare le parole devi mettere le persone adatte nei ruoli apicali. Se le donne sono solo persone di cura del lavoro, i linguaggi le parole non cambieranno mai, perché saranno sempre maschili”.

Anche il confronto con la giustizia resta complesso, in questi giorni è una triste evidenza. Lo ricorda Gian Antonio Stella: “Non sempre la giustizia è stata giusta. Nulla restituisce una vita, ma spesso anche per il risarcimento nei confronti parenti non c’è grande attenzione. C’è chi non ha passato in carcere neanche un giorno… Pubblicare le foto degli assassini è allora, almeno, una sanzione morale”.

Le parole contro le donne si intrecciano pesantemente, sulla rete, con le fake news: violenza e menzogna per costruire false realtà. Un percorso negativo che parte dalle parole d’odio per arrivare fino alla violenza estrema: analizzare le parole è necessario anche per arrivare a capire gli obiettivi di chi le usa. Marco Tarquinio: “Ci sono parole che ingigantiscono le paure e sottovalutano la realtà. Il dramma che continuiamo a vivere e che c’è una costanza terribile negli atti di violenza. Parole usate nel 2017 sono le stesse usate nel 2009 quando si istituivano le ronde. Servono le parole giuste che diano sostanza, nelle bocche dei giornalisti, nelle bocche degli avvocati. Noi abbiamo la nostra parte. Nella nostra categoria ci sono persone che non accettano che si dicano quali sono parole da usare. Ci sono tempi in cui esistono parole “brutte”, come femminicidio, che vanno usate perché descrivono situazioni brutte così come le conosciamo”.

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È proprio per questo, come ha sottolineato Alessandra Mancuso, presidente della Cpo Fnsi, che “il Manifesto di Venezia è la tappa intermedia di un percorso iniziato dieci anni fa. È una carta viva che sarà aggiornata, perché questa è una riflessione che andrà avanti. Non è con sanzioni e nuove carte deontologiche che si migliora, ma con il cambiamento culturale, a partire dalla formazione. E delle azioni all’interno delle aziende, Roberta Balzotti, presidente della Cpo Usigrai ricorda un risultato importante: “Abbiamo ottenuto dalla Rai  sia il varo di norme di comportamento contro le molestie sui luoghi di lavoro sia l’istituzione di Consigliere/a di fiducia per raccogliere eventuali segnalazioni”.

Le segnalazioni, soprattutto: sono uno degli step per il cambiamento perché, come ha sottolineato Marina Cosi. presidente di Giulia: “Certo il cambiamento culturale, ma le regole vanno anche fatte applicare… Da qui la necessità di segnalare all’Ordine le lesioni di norme deontologiche: se un giorno fa ho ricevuto dall’Ordine la notifica di archiviazione nei confronti di un collega piemontese (… “Boldrini attesa sulle Ramblas”, auspicava), in compenso l’anno prima l’Ordine aveva censurato e proibito la definizione Baby-squillo, perché non sono prostitute, sono bambine abusate”.

Un intervento questo su cui si era con successo spesa l’allora Cpo nazionale dell’Ordine, Gegia Celotti (presente in sala alla Fenice), ora presidente Cpo Ordine lombardo.

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“Giustamente ci siamo sinora concentrate sulle parole, ma ora occorre ampliare la nostra riflessione alle immagini – ha rilevato ancora Marina Cosi – Su cui soprattutto i giovani sono immersi. Da tempo Giulia sta lavorando a condivisi criteri interpretativi”. Non a caso in sala era presente anche Monia Azzalini che, come ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia ed esperta iconografica, ha collaborato con Giulia a diverse indagini sul tema (Tv e genere, Linguaggio e media, 100Esperte.

Un’indagine che ci spiega, se ancora ce ne fosse bisogno, perché rappresentanza e linguaggio sono componenti essenziali di quel cambiamento culturale che giornaliste e giornalisti italiani si sono impegnati a costruire.

Cambiamento che passa anche attraverso due strade obbligate. Da un lato la maggiore vigilanza sulla rete perché, ha evidenziato Stella: “Non è possibile che si possa diffondere qualsiasi cosa senza essere ammanettato”. Dall’altro, come sostiene Tiziana Ferrario: “Bisogna mettere di fronte alle loro responsabilità i giganti del web. Ti danno autostrade su cui far correre l’odio. Noi che siamo sottoposti a serie di regole dovremmo pretendere che anche loro lo siano”.

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Qui il manifesto con le adesioni finora raccolte

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