Le donne migranti le più colpite dai "danni collaterali" della pandemia | Giulia
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Le donne migranti le più colpite dai "danni collaterali" della pandemia

Sono la maggioranza dei lavoratori stranieri, ma soprattutto quelle più penalizzate sul lavoro in questo periodo (109mila posti perduti). Spesso i loro sono lavori precari e più esposti al contagio.

Le donne migranti le più colpite dai "danni collaterali" della pandemia
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26 Ottobre 2021 - 17.27


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Il “Dossier statistico immigrazione”, che verrò presentato nei prossimi giorni (il 28 ottobre), dà anche una fotografia dell’immigrazione femminile dalla quale non possiamo prescindere in nessuna analisi, tanto meno nell’informazione. Sono le donne immigrate, infatti, ad aver sofferto maggiormente la crisi pandemica, sia per la perdita di lavoro, sia per i contagi. Ecco una anticipazione del “Dossier” su questo tema.

 

Tra gli stranieri residenti in Italia – pari nell’insieme all’8,5% della popolazione del Paese – il 51,9% è una donna: oltre 2,6 milioni di persone alla fine del 2020, con 198 provenienze geoculturali diverse (in prevalenza romene, 650mila, e poi albanesi e marocchine, fino a collettivi minori).

Una presenza rilevante e poliedrica che, pur nella diversità dei modelli migratori di riferimento, fin dagli anni ’70 del secolo scorso ha fatto del protagonismo femminile una delle caratteristiche delle migrazioni verso l’Italia, che si riflette anche nell’inserimento lavorativo. Alla fine del 2020, secondo la Rilevazione sulle Forze Lavoro dell’Istat, il 42% degli occupati stranieri è una donna (dato del tutto in linea con quello della popolazione italiana).

Con l’imporsi della pandemia e della crisi socio-economica che ne è seguita, in un quadro generale in cui spesso sono tornati ad aumentare i divari tra italiani e immigrati, essere donna e straniera si conferma fonte di accresciuta vulnerabilità: un doppio svantaggio con chiari riflessi nel tessuto occupazionale.

Se la pandemia ha prodotto un eccezionale calo dell’occupazione (-456mila, -2,0%), infatti, questo ha riguardato innanzitutto gli stranieri (-159mila, -6,4%) e, tra loro, le più penalizzate sono senz’altro le donne (-109mila, -10,0%), che da sole coprono quasi un quarto della perdita totale di posti di lavoro (24%). I dati mostrano dunque un andamento peggiore per le lavoratrici straniere, diminuite in misura più alta sia rispetto agli immigrati uomini (-10,0% a fronte di -3,5%) sia alle donne italiane (-1,6%), che invece risultano colpite in misura simile ai connazionali maschi (-1,3%).

Il loro tasso di occupazione, di riflesso, ha subìto un calo di 4,9 punti percentuali, più che doppio rispetto al -2,2 degli uomini stranieri e otto volte quello delle donne italiane (-0,6, valore in linea con quello dei connazionali uomini), le quali spesso, proprio grazie al sostegno delle lavoratrici straniere più che per una condivisione paritaria dei ruoli di genere in famiglia, riescono a risolvere le carenze del sistema di welfare e a conciliare le esigenze familiari con quelle professionali.

In forte aumento anche la quota delle sotto-occupate, ossia le donne che lavorano meno di quanto vorrebbero: nel 2020 sono il 14,0% tra le straniere (erano l’8,1% nel 2019) e il 9,1% tra le italiane. Resta elevata anche la percentuale delle sovraistruite: il 42,3% delle lavoratrici straniere vanta un livello di competenze superiori alle mansioni svolte, una quota, anche questa, nettamente superiore sia a quella delle donne italiane (24,8%) che degli immigrati maschi (27,7%).

 

 

Contribuisce a spiegare la spiccata vulnerabilità dell’occupazione femminile immigrata la netta canalizzazione in lavori poco tutelati e particolarmente esposti alla precarietà e alle restrizioni (oltre che al rischio di contagio). Più della metà lavora in sole 3 professioni: collaboratrici domestiche, badanti, addette alla pulizia di uffici ed esercizi commerciali (a fronte di 13 professioni per gli uomini stranieri e 20 per le donne italiane) e ben il 39,7% è un’addetta ai servizi domestici o di cura.

Sul calo dell’occupazione femminile straniera, dunque, ha pesato anche la lentezza con cui procede la regolarizzazione dell’estate del 2020, relativa al settore domestico nell’85% dei casi (a fine luglio 2021 solo il 27% delle domande era giunto a definizione con il rilascio di un permesso di soggiorno).

La spiccata concentrazione nel lavoro presso le famiglie ha fortemente limitato la possibilità delle lavoratrici straniere di contare sul blocco dei licenziamenti e sull’accesso alla cassa integrazione. Secondo i dati Inps le donne sono appena il 10,5% dei non comunitari percettori nel 2020 della cassa integrazione ordinaria e il 24,3% di quella straordinaria. La loro quota sale solo nel caso dell’assegno ordinario dei Fondi di solidarietà (37,6%) e della cassa integrazione in deroga (41,1%).

Le assistenti familiari e le tante lavoratrici del sistema socio-sanitario hanno pagato un caro prezzo anche in termini sanitari e di esposizione al contagio da Covid-19. La sindemia ha incrementato il rischio connesso al caregiver’s burden, ossia l’impatto del lavoro di assistenza sul benessere psico-fisico e sulla qualità della vita delle collaboratrici familiari: allo stress (fisico e) psicologico si è aggiunto quello da rischio di contagio (legato sia alla cura degli assistiti sia alla tutela della propria salute), insieme alla connessa preoccupazione di perdere il lavoro, tanto più che solo diversi mesi dopo l’inizio della pandemia il contagio sul posto di lavoro è stato riconosciuto come infortunio dall’Inail. Tra i casi di contagio denunciati dai lavoratori stranieri (il 14,3% del totale nel 2020), 8 su 10 si riferiscono a donne.

Anche l’accesso al vaccino è stato ritardato rispetto ad altre categorie “a rischio”. Solo nel piano vaccinale di marzo 2021 è stato esteso l’accesso alla vaccinazione prioritaria anche agli assistenti familiari addetti alla cura, ma solo di persone con gravi disabilità, escludendo tutti gli altri (assistenti di soggetti comunque “fragili”, colf, baby sitter). Nel frattempo, non sono mancati i casi di chi, rientrato temporaneamente nel Paese di origine, ha aderito alla locale campagna di vaccinazione, con ricadute problematiche per numerose lavoratrici dei Paesi dell’Europa orientale, vaccinate con lo Sputnik, non ritenuto valido per ottenere il Green Pass in Italia.

 

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