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Cronache del mondo di dentro

Pubblichiamo il reportage sulle donne di Rebibbia firmato dalla collega e "giulia" Maria Teresa Cinanni

Cronache del mondo di dentro
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11 Gennaio 2018 - 16.05


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Scavare dentro di sé con la penna, cominciare col raccontarsi e poi far cronaca del mondo tutt’attorno, un mondo particolare, circondato da sbarre. I laboratori di scrittura nati nelle principali carceri italiane, che hanno partorito tanti giornali scritti da persone detenute sono una realtà sempre più diffusa e interessante, dal punto di vista sociale ma anche giornalistico. Sotto testate dai nomi amaramente allusivi (Carte Bollate, Salute In Grata, Piano di Fuga, Buona Condotta, Libera Mente, …) si leggono articoli di testimonianza ma anche d’inchiesta. Purtroppo invece sono ancora rari i reportage sul resto della stampa o nelle televisioni. Ve ne proponiamo uno qui a seguire: un breve e intenso pezzo pieno di belle (e tremende) storie, scritto dalla collega Maria Teresa Cinanni. Mentre in questi stessi giorni esce per l’Editrice cooperativa Libera Stampa (quella di Noi Donne, per intenderci) “A mano libera – Donne tra prigioni e libertà”, il libro curato da Tiziana Bartolini e Paola Ortensi che raccoglie testi scritti nell’arco di sei mesi durante il laboratorio di scrittura del carcere di Rebibbia. Il racconto d’un mondo in ombra da trarre alla luce, che poi è quello che dovrebbe fare il buon giornalismo.  

   

REPORTAGE SULLE DONNE DI REBIBBIA
Disperazione e speranze, rimorsi e propositi

[di Maria Teresa Cinanni]

 

Ha i capelli biondi Laura e sul volto i segni della sofferenza. Lo sguardo a tratti spento che si anima di colpo quando deve parlare di sé, raccontare la sua storia, quando si sente ascoltata. Un filo di trucco leggero sugli occhi e un maglioncino nero. Un portamento nervoso di chi non ha più intenzione di lasciar passare ciò che non vuole. Ha ancora vari anni da scontare al penitenziario femminile di Rebibbia, dove si trova già dal 2013. Ha ucciso il marito con un coltello dopo l’ennesima lite, racconta. Ha ucciso perché esasperata dalle violenze e dalle botte sopportate negli anni. Le sono state riconosciute le attenuanti proprio in virtù della sua storia che, adesso, racconta pubblicamente senza vergogna, né remore. Ha un figlio, per fortuna già grande, che viene a farle visita di tanto in tanto. E ha voglia di riscatto. All’interno del carcere lavora nei giardini e ha acquisito un’abilità nella cura del verde. “Facevo la maestra d’asilo – racconta – e mi piaceva molto. Adesso mi occupo degli spazi d’aria e amo anche quest’attività. Mi permette di trascorrere delle ore all’aperto, anche in inverno e sotto la pioggia e di pensare meno a ciò che ho lasciato e al tempo che dovrò ancora rimanere qui dentro. Non so cosa farò dopo e il pensiero mi preoccupa. Non posso sperare di riavere il lavoro con i bambini, ma mi piacerebbe almeno proseguire questo in cui sono diventata esperta”.

E’ una sorta di piccola oasi nel panorama carcerario l’ala femminile di Rebibbia. Un posto in cui le detenute lasciano spesso la cella per muoversi all’interno del penitenziario a lavorare. Si conoscono tutte e ognuna conosce la storia dell’altra.

“All’inizio è molto brutto – raccontano unanimemente – non ti fidi di nessuno e vedi nemici e pericoli ovunque. Poi impari che ognuna di noi ha la sua storia alle spalle e il suo carattere e che le guardie non sono poi così male. Anzi, a dir la verità, sono carucce con noi”. E il rapporto tra detenute e agenti della polizia penitenziaria diventa un tutt’uno in quest’angolo di mondo. Due realtà opposte che si incrociano e camminano insieme, “perché – spiega un’operatrice – diventiamo col tempo le loro confidenti, quasi delle psicologhe. Si rivolgono a noi per qualsiasi richiesta. Molte di loro non hanno altre possibilità di parlare. Chiedono soprattutto dei figli, di poterli vedere più spesso, di essere aiutate a tirar fuori i bambini dalle case famiglia in cui si trovano”.

E’ proprio quello che è accaduto a Cristina, 33 anni e già cinque figli. E’ dolce Cristina, si emoziona facilmente e si commuove quando parla del suo bimbo più piccolo che non vede da circa tre anni. Lo sente al telefono, “ma non è la stessa cosa – dice – anzi a volte è anche peggio ed evito di chiamarlo perché poi non reggo”. I suoi ragazzi adesso sono in Romania con i nonni materni, ma non è sempre stato così. Lo scorso anno, il tribunale dei minorenni italiano aveva tolto la potestà genitoriale e messo i minori in casa famiglia. Si è disperata Cristina. All’interno del carcere ha provato a chiedere aiuto a chiunque. Le agenti hanno condiviso il suo dolore e l’hanno sostenuta nella battaglia. Alla fine ce l’ha fatta. I piccoli sono tornati in Romania e lì possono vivere in famiglia. “Questo è stato il mio più grande successo – racconta – ero disperata. Temevo di non farcela. Ho avuto paura davvero. Più di quando sono entrata qui dentro. Ma ce l’abbiamo fatta. Ringrazio Dio. E’ stato quasi un miracolo”.

E ai miracoli si aggrappa anche Regina, non più giovanissima e in attesa della semilibertà che dovrebbe riportarla dal suo nipotino di cinque anni. “Sono stata debole – dice – mio marito mi ha chiesto di andare a prendere delle persone in Spagna e ho finto di non capire. Non volevo capire. Ha prevalso la voglia di aiutarlo. O il non voler vedere. Al rientro siamo stati fermati a Fiumicino e, dopo anni di processo, sono finita qui. Mi sono riversata nella fede che rappresenta l’unica ancora cui aggrapparmi. Dio mi dà la forza di sperare ancora, di lavorare per far passare le mie giornate. Faccio la sarta. E’ un mestiere che ho imparato qui. Prima ero assistente in uno studio dentistico e gli aghi per me erano soltanto quelli dell’anestesia. Ho fatto anche un corso di informatica. Sono grande ma può sempre tornare utile – si giustifica – e soprattutto mi ha tenuto occupato il cervello”.

Non pensare al luogo dove si trovano e ancor di più riuscire a non pensare alla libertà persa è l’occupazione maggiore. Quasi un’ossessione che soltanto il lavoro riesce a normalizzare. Un lavoro concreto, pratico che porta le detenute da un padiglione all’altro, che fa loro intravedere un raggio di sole e la strada oltre il muro. Vengono seguite a vista nei loro spostamenti ma chi sta qui da un po’ di tempo, non ci fa più nemmeno caso. Le operatrici fanno parte delle loro vite, così come i giardini, la sartoria, il caseificio, il macello dove loro stesse si occupano degli animali, le cucine dove preparano i pasti. Sono diventate cuoche e imprenditrici. Gestiscono un negozio, questo sì, aperto al pubblico e i loro prodotti riescono a superare la rete. Pezzi di vita che lasciano il carcere e raccontano di esso. Si entusiasmano per un complimento e fanno assaggiare con orgoglio i loro prodotti. Il lavoro le anima. “E’ una seconda fede”, afferma qualcuna distrattamente. Un modo per integrarsi e in qualche modo far pace con la vita. Forse solo per qualche ora, ma ore di normalità. Alcune sono più restie a parlare. Provano rabbia e vergogna. Non hanno ancora la forza di condividere. E poi c’è la barriera linguistica di chi ha avuto più facilità a falsificare un permesso di soggiorno che ad apprendere una lingua tanto diversa dalla propria. E per loro, isolate anche nella comunicazione verbale, il lavoro diviene davvero l’unica possibilità di esprimersi. L’unica evasione. L’unico approdo momentaneo.

Chi ha l’opportunità di trascorrere un po’ di tempo insieme a loro porta nel cuore non il reato e le motivazioni, le più varie, che hanno fatto varcare loro gli imponenti cancelli azzurri di Rebibbia, ma lo sguardo smarrito di donne alla ricerca di solidarietà e ancor di più di ascolto. Di persone qui fragili che si emozionano nel raccontare di sé e mostrano un entusiasmo quasi infantile nel riconoscersi negli scatti fotografici proiettati in un convegno, nel rivedere i propri spazi quotidiani nelle immagini che scorrono lente sullo sfondo di un incontro che sa di esterno. Che sa di libertà.     

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