Perché le giornaliste non hanno il "Quarto potere"

Tutti i numeri della professione: quante siamo, quanto contiamo. E quanto guadagniamo... Il contributo di GiULiA al documento delle associazioni di donne per Pechino + 25.

Perché le giornaliste non hanno il "Quarto potere"
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23 Febbraio 2020 - 15.45


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Il prossimo marzo nella sede delle Nazioni Unite a New York, la celebrazione della Conferenza di Pechino a 25 anni di distanza, con la valutazione di quanto è stato fatto nei diversi Paesi. Il nostro governo brilla per assenza, come abbiamo raccontato nella interessante analisi di Daniela Colombo. Ma a muoversi ora sono le associazioni di donne (da Pangea, a Udi, a Be Free a tante altre), che hanno preparato una contro-relazione. E alla quale ha collaborato anche GiULiA con un approfondimento sul tema Donne e media, analizzando la professione al femminile. Eccolo:

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Obiettivo stralegico J.1: Accrescere la partecipazione delle donne e permettere loro di esprimersi e di accedere ai processi decisionali nei media e nelle nuove tecniche di comunicazione

La presenza delle donne nei media italiana è massiccia, sfiora il 40%. I dati dell’Ordine dei giornalisti, secondo il rilevamento di genere più recente (settembre 2018), raccontano che, su una platea di oltre 100mila giornalisti iscritti, le donne sotto i 35 anni rappresentano il 46,39%, tra i 35 e i 64 anni – cioè la parte più numerosa della categoria – sono poco sopra il 43%, mentre oltre i 64 anni il dato della presenza femminile crolla al 20,11%.  Nella realtà professionale, tuttavia, i giornalisti effettivamente al lavoro sono circa 15mila con un contratto nei giornali e circa 15mila free lance, ma le percentuali uomo/donna sono le stesse (41% di donne in redazione, 44% tra i free lance).

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Questi dati anagrafici confermano comunque come la svolta nella presenza femminile nei giornali sia avvenuta nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, con l’avvento e il proliferare delle prime “radio libere” e “tv libere”, terreno di sperimentazione con alta percentuale di partecipazione delle donne, e un deciso ingresso nelle testate tradizionali. Nei decenni precedenti la presenza femminile era residuale.

L’importante numero di donne nei media non ha però riscontro nei processi decisionali dei giornali: su un totale di 306 direttori, 241 sono uomini e 65 donne; tra i 193 vicedirettori 154 uomini e 39 donne; nell’ufficio dei capiredattori, su un totale di 1.313 contrattualizzati, 942 sono uomini e 371 donne. (Questi dati – aggiornati al dicembre 2017 – sono ricavati dalle dichiarazioni previdenziali all’Inpgi, l’istituto che eroga le pensioni ai giornalisti italiani). Non tragga in inganno l’alto numero di direttori: si tratta in larghissima parte di responsabili di testate giornalistiche molto piccole, in cui è assente una vera e propria struttura giornalistica. Nella realtà delle maggiori testate, invece, la piramide del comando è saldamente in mano maschile: una sola direttrice nei tg della tv pubblica Rai (Tg3), due condirettrici nelle tv private Mediaset (Studio Aperto e Tg4, dove sono affiancate da un uomo con maggiori poteri), assenti a La7 e Sky. Non va meglio nei grandi quotidiani, dove tra i maggiori dieci sono presenti due sole direttrici (il manifesto e la Nazione). Sia in tv che nei giornali negli ultimi anni la presenza di donne al vertice si è contratta.

Anche per quel che riguarda il pay gap gender, la differenza economica riguarda tutti gli incarichi e tutte le età. La retribuzione media degli uomini sfiora i 60mila euro, mentre supera di poco i 52mila quella delle donne. Per fare un esempio: la retribuzione media di un caposervizio è di più di 82mila euro, quello di una caposervizio si ferma a 75mila. Una differenza retributiva che compare fin dall’inizio della carriera, visto che i giornalisti sotto i 30 anni guadagnano mediamente 19.100 euro, mentre le giornaliste non arrivano a 18.500 (dati Inpgi dic. 2017). 

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Non va molto meglio negli Enti di rappresentanza di categoria, tutti elettivi (Fnsi, Ordine dei giornalisti, Inpgi e Casagit). Solo uno di questi (l’Inpgi), dal 2016, è governato da una giornalista, mentre solo dalla fine del 2017 per la prima volta è stata eletta una donna come vicepresidente dell’Ordine Nazionale, mentre sono 2 su 20 le presidenti degli Ordini regionali (per la Fnsi sono 3 le donne nella Segreteria su 8 membri e alla Casagit sono 4 donne su 12 membri del Cda). Le recentissime elezioni per il Consiglio generale dell’Inpgi – febbraio 2020 – hanno portato all’elezione di 20 giornaliste (erano 17 alle scorse elezioni) su 50 componenti. Rilevante comunque il dato che sono state tra le più votate.  

Un reale ostacolo alla libertà di espressione delle giornaliste è il fenomeno, recente ma clamoroso, del linguaggio d’odio. Gli osservatoriii (per ex. Vox – osservatorio sui diritti, Amnesty) rivelano che sono le donne le vittime maggiori di hate speech, seguite da migranti e stranieri. Le giornaliste che si occupano di questi temi sono un preoccupante bersaglio del linguaggio d’odio, tale da rischiare di condizionare la loro piena libertà professionale per minacce e attacchi sessisti violenti.

 

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Obiettivo strategico J.2: Promuovere una immagine equilibrata e non stereotipata delle donne nei media

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Le giornaliste italiane sono organizzate in rete e in associazioni (le Commissioni Pari Opportunità dei diversi organismi rappresentativi, l’associazione GiULiA-giornaliste) anche per intervenire nei processi decisionali, promuovendo un uso del linguaggio rispettoso della dignità delle donne e la presenza delle donne nella narrazione giornalistica, soprattutto per le sue eccellenze.  

In particolare dal 25 novembre 2017 è stato promosso il “Manifesto di Venezia”, un decalogo per una scrittura responsabile contro la violenza alle donne, per la promozione della figura femminile, per il rispetto anche linguistico della dignità della donna, nella scrittura e nell’uso delle immagini: non una carta deontologica, ma una assunzione diretta di responsabilità dei giornalisti – ormai con ben oltre mille firmatari, tra cui molti direttori e direttrici. Su questi temi vengono fatti e replicati dal 2017 corsi di aggiornamento professionale (obbligatori per legge per gli iscritti all’OdG), in tutte le regioni, anche con il riconoscimento del valore deontologico. Apprezzabile l’intervento dei Consigli di Disciplina dell’OdG, con sanzioni anche gravi (sospensione dalla professione) nei casi di violazione della dignità della donna.

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Tuttavia, nonostante sia da registrare un migliore approccio linguistico (l’uso del femminile per indicare i ruoli delle donne è più diffuso) e di linguaggio contro la violenza (sono più contenuti i casi di utilizzo di stereotipi, o giustificazionisti nei confronti dei violenti e degli assassini attraverso l’utilizzo di termini come gelosia, raptus, passione ecc.), l’immagine della donna raccontata dai media è sempre non equilibrata rispetto a quella maschile e spesso stereotipata, soprattutto in settori come quello dello sport.

Importante quindi rendere obbligatoria la formazione specificatamente sui temi legati alle dignità della donna e alla sua rappresentazione nei media.

Il fatto che la piramide decisionale dei giornali sia rigidamente in mano maschile rischia in molti casi di limitare l’offerta a lettrici e lettori, telespettatrici e telespettatori, del punto di vista e della sensibilità delle donne nell’affrontare i grandi temi globali. E questo nonostante le tv affidino la conduzione dei notiziari soprattutto a giornaliste (nel 54% dei casi) e le giornaliste inviate o corrispondenti siano il 43,8%.

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Secondo l’ultima indagine del “Monitoraggio sulla rappresentazione femminile della Rai”, fatto dall’Osservatorio di Pavia (sulla programmazione 2018 e presentato nel 2019) “rimangono sfide aperte la frequente ricorrenza di stereotipi, palesi (4,4%) o sottili (7,8%), e una scarsa centralità femminile (5,8% vs 13,2% della centralità maschile)”. C’è “uno sbilanciamento a favore degli uomini che costituiscono il 63% delle 20.378 presenze registrate, contro il 37% di donne”, nei programmi di approfondimento informativo la presenza delle donne si ferma al 33,1%, e nei TG al 31,2%.

Ancora: “il profilo socio-anagrafico delle persone e dei personaggi evidenzia come la società riflessa dalla programmazione Rai sia rappresentata soprattutto da uomini, adulti, eterosessuali, di estrazione borghese, etnia occidentale, religione cattolica e, in apparenza, normalmente abili. Rispetto a questo profilo dominante, le donne si differenziano sotto il profilo dell’età e della professione: sono più giovani degli uomini, più spesso degli uomini hanno una presenza socialmente e professionalmente anonima (18,4% vs 10,1%), meno spesso degli uomini rappresentano il mondo della politica (3,9% vs 8,4%), dello sport (1,4% vs 5,8%) e dell’imprenditoria (4,5% vs 7,7%). Rispetto agli uomini rappresentano meno il mondo dell’alta borghesia e più quello della piccola borghesia urbana”.

 

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