Le parole per dirlo. Partiamo dai titoli

Un corso di formazione di GiULiA Sardegna sui "microtesti" delle news: ma i limiti di spazio e i tempi frenetici delle redazioni facilitano sciatteria e scontatezza. [Di Franca Rita Porcu]

Le parole per dirlo. Partiamo dai titoli
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Franca Rita Porcu Modifica articolo

2 Dicembre 2019 - 12.47


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Quali sono le parole giuste per dirlo? Se anche la risposta non si conoscesse, né mai sarà data del tutto, per cominciare a cambiare le cose, e magari leggere articoli che portino il rispetto dovuto alle persone in quanto persone, in spregio a logori e volgari pregiudizi,  basterebbe che i giornalisti si ponessero questa domanda prima di scrivere.

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Una buona pratica inizia sempre da un dubbio, e quello riguardo alle parole necessarie per raccontare un fatto è il più importante, perché dire in un certo modo vuol dire pensare in un certo modo. E se si scrive per un lettore vuol dire anche condizionarlo a pensare in quel modo. 

Per questo non poteva che intitolarsi: ”Fare i titoli: le parole giuste per dirlo. Per una narrazione corretta tra dovere di cronaca ed etica dell’informazione”, il corso di formazione che si è tenuto nei giorni scorsi a Cagliari, alla Facoltà di Studi Umanistici. Organizzato da Giulia Giornaliste Sardegna e Ordine dei Giornalisti della Sardegna, in collaborazione con il Dipartimento di Pedagogia, Psicologia e Filosofia dell’Università di Cagliari, in occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, che si celebrava quel giorno, è stato inaugurato dalla rettrice Maria del Zompo, sensibile e sollecita verso le questioni di genere, e moderato dalle giornaliste Daniela Pinna (L’Unione Sarda) e Alessandra Sallemi (La Nuova Sardegna). 

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Un’intensa giornata, articolata in due parti, aperta con i saluti di Francesco Birocchi, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Sardegna, e in cui sono intervenute Susi Ronchi,  coordinatrice di Giulia Sardegna, Marina Cosi, vicepresidente di Giulia Giornaliste, Roberta Celot, responsabile Ansa Sardegna, e i docenti dell’Università di Cagliari, Elisabetta Gola (Semiotica dei media), Cristina Cabras (Psicologia Sociale), Massimo Arcangeli (Linguistica). Agnese Pini, giovane direttrice della Nazione, ha inviato un contributo videoregistrato.  

A far sul serio si è cominciato subito dopo il siparietto delle LucidoSottile, Michela Sale Musio e Tiziana Troja, che nel proscenio improvvisato dell’aula magna Capitini, affollata di giornalisti, studenti e insegnanti (oltre 300 persone), hanno messo in scena un estratto di ”La conosci Giulia?”, spettacolo sulle discriminazione di genere e il linguaggio sessista dei media, nato da un progetto di Giulia Giornaliste Sardegna in collaborazione con Corecom Sardegna.  

Non è un caso che il convegno sia stato organizzato proprio il giorno dedicato a riflettere sulla violenza contro le donne: ”Le strutture socio-culturali profonde, inconsapevoli, di cui si alimenta la violenza di genere” spiega Daniela Pinna, ”si esprimono e sono perpetuate attraverso il linguaggio, lo strumento che tutti, ma in particolare i giornalisti, utilizziamo per interpretare e trasmettere le esperienze nostre e altrui”. Il linguaggio esprime la realtà, ma più ancora la modella. ”Aggettivi, metafore, persino i costrutti sintattici che usiamo con leggerezza” aggiunge la giornalista, ”possono perpetrare stereotipi, alimentare una visione schematica e datata dei rapporti uomo-donna, colpevolizzare la vittima e persino rinnovare il trauma della violenza”. 

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La questione del linguaggio è un tema caro a Giulia Giornaliste, e la sezione sarda, ha ricordato Susi Ronchi, vi ha dedicato alcuni corsi anche in passato, ed è costantemente oggetto di dibattito interno tra le numerose iscritte all’associazione, tra le più attive a livello nazionale. Se è vero, sostiene Ronchi, che da due anni a questa parte, ossia dalla nascita del Manifesto di Venezia -un decalogo che impegna i giornalisti a un’informazione corretta, rispettosa e consapevole del fenomeno della violenza di genere- qualcosa è cambiato, ”ancora non è abbastanza”. In particolare, chiosa la coordinatrice di Giulia Sardegna, ”ci è sembrato necessario e urgente un confronto sulla questione dei titoli, anche alla luce di quanto è accaduto recentemente con il caso di Elisa Pomarelli, e il famigerato titolo ”il gigante buono” riferito al suo assassino. Le cronache del femminicidio di Piacenza sono una sintesi infelice di discriminazioni di genere e cultura omofoba”. 

Diviene urgente, allora, una rivoluzione culturale, come ha suggerito Agnese Pini, che parta dalle parole, che devono essere meditate, soppesate e sempre e ovunque sostituite quando sono offensive, mortificanti, oppure ammiccano alla parte peggiore del lettore, che non è ”la pancia”, come si può pensare. La parte peggiore è l’ipocognizione, la mancanza di parole e di idee per interpretare la realtà. Secondo Elisabetta Gola ”tendiamo a capire e ricordare ciò che corrisponde a conoscenze che possediamo, a ciò che è già nel nostro immaginario socialmente costruito”. In questo senso il giornalismo, qualunque sia il supporto, carta stampata o digitale, contribuisce a formare i modelli che aiutano a interpretare la realtà, a comprenderla. Usare un certo linguaggio vuol dire, nel bene e nel male, plasmare un modo di pensare. Scrivere ”vittima di un amore criminale” è diverso dallo scrivere ”Vittima di un criminale”. O anche ”strangola una prostituta” è diverso da ”Strangola una donna”. I titoli sono fondamentali se si vuole realizzare la rivoluzione auspicata da Pini. Sono ”bombe semantiche” secondo l’efficace definizione di Daniela Pinna. Possono lasciare ferite profonde. 

Il titolo è un microtesto che presenta i contenuti essenziali di una notizia, ma i limiti di spazio e i tempi frenetici delle redazioni facilitano sciatteria e scontatezza. Ancora di più da quando, ha spiegato Roberta Celot, ”dal 2000 in poi, si è affermata una nuova maniera di comporre il titolo, che punta sull’elemento più emotivo della notizia. È più facile confezionare titoli sensazionalistici, ispirati a slogan, con massiccio ricorso alla lingua inglese e, in questo modo, favorire nel lettore un approccio superficiale ai fatti, che ragiona per schemi. Non c’è spazio per l’analisi, per l’approfondimento, non si aiuta la crescita di una coscienza civica nel cittadino”.

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Una consapevolezza che, anche per Marina Cosi, è ”il mandato sociale del giornalista”. ”Titolare è un lavoro di alto artigianato” afferma la redattrice di varie testate giornalistiche nazionali, mitica titolista. ”Il giornalismo è uno strumento di crescita sociale che comincia con il corretto uso della lingua italiana”. 

Una cronaca corretta però, ha bisogno anche di una conoscenza ampia e approfondita del fenomeno della violenza di genere, su cui si è soffermata a lungo Cristina Cabras, nella seconda parte della giornata dedicata ai laboratori e coordinata da Alessandra Sallemi. Secondo la docente di Psicologia sociale, oltre a consolidare pregiudizi e stereotipi sulle donne figli di una robusta cultura sessista, radicata sia in chi scrive sia in chi legge, le cronache e specialmente i titoli giornalistici fanno cattiva informazione perché le cause della violenza non sono quasi mai quella urlate nel titolo. Non è il raptus che uccide una donna, ma un uomo. Non è la separazione a scatenare l’assassinio ma la volontà di dominio e possesso del partner. 

Allora, che fare? Se l’istituzione di un Osservatorio permanente sul linguaggio, proposta da Celot, è un passo concreto in direzione della citata rivoluzione culturale, allo stesso modo è necessario studiare, prepararsi, formarsi. Soprattutto, ha concluso Massimo Arcangeli, essere aperti al dialogo. Solamente relazioni autenticamente umane possono proteggerci dai pregiudizi.

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