La città è davvero un bene comune?

Le politiche sulla sicurezza nei quartieri a rischio, occultano la trasversalità della violenza sulle donne. L'espulsione dallo spazio pubblico [di Roberta Pompili]

La città è davvero un bene comune?
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5 Giugno 2012 - 13.06


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Pubblichiamo alcuni stralci di “Safety or security? La critica femminista alla città biopolitica e la produzione del commonfare” di Roberta Pompili (in “Oltre il pubblico e il privato – Per un diritto dei beni comuni”, a cura di Maria Rosaria Marella – edizioni Ombre Corte)

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Il Collettivo femminista di Perugia Sommosse/associazione
Tana LibereTutte è un gruppo di donne e lesbiche, precarie
e studentesse. Dopo la partecipazione nel 2008 alla grande manifestazione
di Roma contro la violenza maschile sulle donne, e successivamente
a due gravi femminicidi (Cicioni e Meredith) che, seppure in
maniera diversa, hanno scosso fortemente il nostro territorio, ci siamo
ritrovate insieme a riflettere su come incidere nella nostra regione su
questo tema. L’Umbria è, infatti, una regione con un altissimo tasso
di femminicidi e una delle poche sul territorio nazionale prive di un
Centro Antiviolenza per donne. Per qualche tempo reti di donne nella
regione e nella città si sono interrogate su questi temi e hanno attivamente
promosso nel territorio molteplici incontri e assemblee. La ricchezza
e la complessità delle reti di donne che hanno animato questi
incontri ha messo in gioco desideri, saperi, capacità producendo una
sinergia comune e collettiva nella quale è stato possibile progettare e
realizzare un progetto comune e condiviso: il progetto “Mai Più. Mille
azioni per impedire ulteriori violenze”. Il progetto, finanziato dal Ministero
delle Pari Opportunità e cofinanziato dalla Regione Umbria,
ha coinvolto tantissimi comuni, le Asl della regione, le province: ma il
dato più significativo è che hanno progettato, sostenuto e partecipato
alle diverse azioni di “Mai Più” tantissime donne, molte delle quali
legate alle trenta associazioni territoriali che hanno aderito al progetto
stesso.

La violenza maschile sulle donne è un fenomeno strettamente legato
alla condizione del genere: una manifestazione diretta della volontà
di dominio e di subordinazione di un sesso, quello maschile,
nei confronti dell’altro, quello femminile, percepito come un altro da
sé non come pienamente titolare di diritti. Essa non è frutto di unapatologia o di un’anormalità, ma legata, al contrario, alla quotidianità
e alla normalità dei rapporti fra uomini e donne nella nostra società. I
dati raccolti in questi anni dalle Centri di accoglienza per donne maltrattate
lo confermano: vengono stuprate e picchiate donne di tutte le
età, condizione economica, sociale e culturale. E gli uomini violenti
appartengono a tutte le classi sociali.

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Se oggi siamo portati maggiormente ad interrogarci su questo fenomeno
è perché esso è diventato più visibile anche grazie al lavoro di
chi ha raccolto documentazione al riguardo. D’altra parte è possibile
che l’evidenza del fenomeno, come suggerisce Daniela Danna1, sia legato
a dei cambiamenti nei rapporti uomo-donna: la violenza esplicita
di oggi si sostituisce alla violenza culturale che nel passato imponeva
ruoli e modelli rigidamente codificati alle donne. Mentre le donne
si muovono sempre più in spazi di autonomia e libertà, la violenza,
può rappresentare un marcatore di confine – quello di genere – un
modo per ristabilire i ruoli tradizionali, fissare delle identità. Secondo
l’antropologo Appadurai2, la violenza, infatti, non è la semplice
conseguenza di una contrapposizione tra identità diverse ma essa può
diventare il modo con cui viene prodotta l’illusione di identità.
Lungi dal riguardare lo spazio dell’eccezione alla norma, riteniamo
la violenza, dunque, un elemento insito nei rapporti di potere tra
i sessi che si strutturano nella vita di tutti i giorni. Il femminicidio
è, in effetti, solo la punta dell’iceberg di una violenza quotidiana, di
un processo di discriminazione proteso alla produzione di utili docili
corpi sessuati.

Mentre tutti i dati sulle violenze a nostra disposizione dimostrano
come le violenze eclatanti (omicidi, percosse, stalking, violenze sessuali)
sulle donne si consumano all’interno della sfera domestica, ovvero
all’interno delle relazioni familiari, affettive e parentali, e dunque
mettono in evidenza ancora una volta la relazione asimmetrica tra i
sessi, il recente dibattito femminista si è occupato di mostrare come,
non solo lo spazio domestico, ma anche lo spazio “pubblico” sia attraversato
da una sottile e subdola violenza per lo più disconosciutae invisibilizzata, una violenza “pedagogica”, che riproduce profonde
dinamiche di discriminazione e ineguaglianza. Partendo da queste
premesse anche il nostro collettivo/associazione ha partecipato ad alcune
azioni del progetto “Mai più”, che era di fatto molto articolato
e che si strutturava su diversi piani di intervento su tutto il territorio
regionale.

[…]

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Genere, violenza e spazio pubblico – All’alba dell’omicidio della
signora Reggiani (2008), causato da un migrante rumeno, in Italia vengono
varate una serie di provvedimenti sulla sicurezza, tesi a irrigidire
le politiche di controllo nei territori rispetto ai comportamenti sociali
con particolare accanimento nei confronti dei cittadini stranieri.
La grande manifestazione delle donne del 2008 ha proprio questo
carattere: se da una parte denuncia la violenza maschile contro le donne,
dall’altra cerca di decostruire l‘ideologia securitaria prevalente per
cui il corpo delle donne diviene nuovamente oggetto di strumentali
provvedimenti volti ad alimentare politiche razziste e di biocontrollo.

Lo slogan ricorrente della manifestazione, “l’assassino ha le chiavi
di casa”, non è altro che il risultato per altri versi di un canovaccio narrativo che supportato dall’uscita nello stesso periodo dei dati
dell’Istat sulla violenza, si pone come elemento di rottura rispetto al
modello egemone per cui la violenza viene da fuori, è esogena. Tamar
Pitch4 a tale proposito, in uno dei suoi interventi, sottolinea come il
corpo delle donne sia usato come costruzione di un confine nazionale:
le norme securitarie prendono a pretesto le violenze per invocare il
controllo del territorio da parte dei maschi contro “gli altri maschi”
stranieri. Le donne come soggetto ancora una volta non esistono, ma
i loro corpi sono in ostaggio delle politiche maschili.

Eppure l’indispensabile attenzione allo spazio familiare come luogo
che nasconde ineguaglianze e sofferenze sembra rintrodurre una
dicotomia spazio privato – spazio pubblico, in cui quest’ultimo appare
come il luogo della neutralità.

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Una riflessione più attenta sullo spazio (Lefebvre) si occupa di
evidenziare come esso sia in realtà un prodotto sociale, e per questo
affatto neutro.

Se il genere è un dispositivo di bicategorizzazione (Butler) che
produce le categorie sessuate degli uomini e le donne dentro un processo
sociale e storico gerarchizzando i due gruppi sociali e assegnando
loro delle qualità proprie, anche lo spazio in quanto prodotto sociale
partecipa alla produzione del genere.

Studiose femministe di diversa formazione – scienziate sociali, urbaniste,
etc. – si sono occupate di mettere in evidenza proprio la dimensione
sessuata dello spazio.

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Ad esempio nel testo “Città sicura: considerazioni sulla paura delle
donne nei piani di programmazione per una maggior sicurezza nelle città”, di Carina Listerborn, vengono esaminati i diversi approccio sul
tema della sicurezza urbana. Nel testo si sottolinea come in anglosassone
il termine sicurezza possa comportare due diverse accezioni: safety
(benessere) contro security (controllo). Generalmente le politiche
in tema di sicurezza urbana affrontano il tema utilizzando un approccio
che presuppone un forte controllo sociale, una sorveglianza continua
che punta alla prevenzione del crimine, creando una città più
chiusa, tesa alla criminalizzazione dell’altro, il diverso; d’altra parte
un approccio basato sulla safety si basa sull’accettazione della molteplicità
di presenze nella città e quindi sulla valorizzazione delle stesse.
Secondo l’autrice l’approccio safety è quello che offre le migliori
risposte alle donne e alle loro paure. Lavorare su ‘paura e sicurezza’
vuol dire lavorare contemporaneamente sulla crescita di potere delle
donne (empowerment) e sulla rottura del potere degli uomini, a cui
normalmente (anche attraverso le istituzioni) viene delegato il compito
di proteggere le donne dagli altri uomini.

Un lavoro interessante e recente sullo spazio pubblico e il genere
è stato realizzato da Marylène Lieber. Il suo lavoro, risultato di una
tesi di ricerca, è raccolto in un testo dal titolo “Genre, violences et espaces
publics. La vulnerabilità des femmes en question”; in esso vengono
esaminate le implicazioni nella produzione dello spazio e del genere
partendo dall’analisi del caso francese.

Lieber utilizza il concetto di genere – che ha il suo equivalente in
francese in “rapporti sociali di sesso” – mutuando l’approccio processuale
e performativo della Butler. Se il genere tende a creare e fissare
le differenze sessuate, a presentarle come naturali e a riutilizzarle in
seguito per rinforzare l’essenzialismo dei sessi, l’autrice è interessata
ad evidenziare i discorsi, le pratiche e le norme che partecipano all’attualizzazione delle differenze sessuate tanto a livello istituzionale che
a livello di interazioni sociali.

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Anche i “rischi” che le donne corrono nello spazio pubblico sono
il prodotto di un lungo lavoro di senso tendente a presentare come
naturali e ovvi processi ai quali partecipano tutti gli attori sociali e le
istituzioni, nelle loro pratiche come nei loro discorsi. In altri termini,i “rischi” che corrono le donne quando occupano lo spazio pubblico
non sono la conseguenza della loro appartenenza sessuale, ma partecipano
alla produzione di questa appartenenza.

Quando si attivano politiche in termini di sicurezza occultando
l’ordine sessuato delle relazioni si producono una serie di risultati. Ad
esempio si riproduce una dicotomia tra la violenza sulle donne, che
viene riferita alla sfera dello spazio domestico e la sicurezza in generale
che riguarda lo spazio pubblico. Ciò attiva una differenziazione
di pratiche sia nel campo della ricerca, che delle politiche pubbliche.

Secondo la Lieber l’invisibilità delle violenze contro le donne nel campo
della sicurezza è spesso giustificata dal paradosso che vuole che le
donne avrebbero paura delle violenze per cui, secondo le statistiche,
il tasso di vittimizzazione è relativamente debole. In questo modo viene
rinforzata l’idea di una “naturale vulnerabilità” delle donne nello
spazio pubblico: mentre lo spazio naturale di agio delle donne viene
relegato alla soglia domestica.

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D’altra parte mentre le inchieste di vittimizzazione, come l’inchiesta
nazionale riguardo alla violenza sulle donne in Francia (Enveff)
disvelano le molteplici forme di violenza sessuata (dalle minacce alle
diverse forme di molestia psicologica, fisica, fino alle aggressioni e alle
violenze sessuali e non) a cui le donne sono quotidianamente sottoposte
nello spazio pubblico, d’altra parte subentrano meccanismi di depoliticizzazione
della violenza stessa. Infatti, nell’ideologia dominante
la sfera del pubblico è maschile e normalmente la presenza di una
donna sola nello spazio pubblico prelude alla sua disponibilità sessuale.

Il termine flaneur, utilizzato da Benjamin per descrivere il girare
per le strade per conoscere la città ha il suo corrispettivo in francese
di flaneuse che vuole dire passeggiatrice, ma anche prostituta. Dunque,
se le donne corrono dei rischi nello spazio pubblico di fatto è
una loro responsabilità personale, non hanno avuto di fatto delle condotte
adeguate: le stesse ricerche sulla paura e la sua sessualizzazione
condotte dalla Lieber mettono in evidenza proprio le forme di evitamento
e di autocensura che le donne attivano nello spazio pubblico
soprattutto nelle ore notturne (girare accompagnate, utilizzare mezzi
privati…). Invisibilizzazione della violenza maschile e depoliticizzazione
della stessa, dunque, concorrono a perpetuare i modelli dominanti.
Le stesse ricerche sulla vittimizzazione hanno normalmente come
risultato quello di indurre le donne a tenere comportamenti appropriati
al genere.

Per altri versi le politiche sulla sicurezza tendono a sovraesporre alcuni quartiere ritenuti a “rischio” generalmente abitati dalle classi
popolari e dai migranti, occultando le caratteristiche trasversali della
violenza sulle donne. Anche in questo caso la linea della razza e del
genere sono continuamente riattraversate e ricostruite per produrre
strumentalmente categorie di rischio, gerarchie e ineguaglianze.
Secondo la Lieber nella città, dunque, agisce un ordine morale e
sessuale che comporta un disciplinamento dei corpi femminili, li richiama
alla compostezza (l’abbigliamento, i comportamenti) e ne riduce
la mobilità.

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Dello stesso ordine morale e sessuale si sono occupati parimenti
studi (Hubbard, Pompili) che hanno osservato come la città biopolitica
sia una forma di governo del territorio e dei corpi differenti che
spazializza le ineguaglianze. Utilizzando la critica dei queer study questi
lavori suggeriscono come il modello dell’eteronormatività si imponga
di fatto anche allo spazio. L’espulsione dallo spazio pubblico di
una serie di comportamenti sessuali ritenuti eccedenti e inappropriati
purifica lo spazio, lo ordina introducendo una serie di dicotomie: lecito/
illecito, maschile/femminile, omossessuale/eterosessuale.

Un piano di violenza sommersa, quotidiana pedagogica e strutturale
(che afferisce alle interazioni degli attori sociali e delle istituzioni)
opera nello spazio e la cui stessa naturalizzazione dicotomica in spazio
pubblico-privato ne rappresenta uno dei dispositivi di potere in atto.

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