Michaela Spiegel, lo sguardo dissacrante

Le sue opere esplorano le fascinazioni dell’universo femminile in una cornice esistenzialista. E con ironia demistifica gli stereotipi [di Maria Cristina Serra]

Michaela Spiegel, lo sguardo dissacrante
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11 Luglio 2012 - 23.39


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Per secoli le artiste sono rimaste confinate in un’area di marginalità, ai confini della storia dell’Arte, ignorate dalle critiche ufficiali, sottoposte alla misoginia del pregiudizio sociale, che raramente ha riconosciuto il loro talento indipendentemente da una figura maschile di riferimento; ma dagli anni ’70 è iniziata una lenta “rivoluzione silenziosa” impegnata a squarciare il velo dell’oblio sull’ “Arte dimenticata”.

Si sono così ricomposte biografie negate o sminuite, riconosciuti contributi creativi sottaciuti, che hanno permesso di ricomporre tasselli mancanti alle architetture del sapere artistico, conferito centralità ad una specificità linguistica di profondo valore innovativo. L’arte ”al femminile” è ormai protagonista di un processo irreversibile, che sta modificando i canoni estetici tradizionali, non temendo la contaminazione emozionale fra vissuto interiore e realtà esterna, capace di affrontare le incognite delle verità nascoste, svelare le finzioni e le paure del presente, accrescere analisi e confronti sulla visione del mondo.

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Fra le artiste contemporanee che con assoluta originalità conducono una ricerca sulle difformità sociali, la complessità dell’animo femminile e la sua rappresentazione, la viennese-parigina Michaela Spiegel occupa un posto speciale. Con sapiente ironia e disincanto si destreggia tra molteplici codici espressivi (pittura, testi, fotomontaggi, grafica, collage, video, installazioni), per ricomporli con spirito dadaista in una sofisticata cornice vintage. Un ricorso continuo alla memoria, un recupero di “cose antiche, trasformandole, perché mi piace sentirle vive e perché penso che non si possa costruire il futuro senza riflettere sul passato e, dunque, sulla Storia”, spiega l’artista nella sua casa-atelier a Parigi, che si affaccia su di una piccola corte fiorita, nel cuore più autentico del Marais, reduce da una conferenza per la riapertura del Palais de Tokyo e dal successo per la collettiva alla galleria Nuke, ”Beautiful Penis”. Una singolare mostra, che ha incrociato senza tabù diverse rappresentazioni femminili dell’organo maschile, con un’inversione dei ruoli abituali fra uomini e donne (qui “soggetti creativi” alla ricerca del tempo perduto del comune desiderio), esponendo “Rivisitazione dell’autorevolezza maschile”, foto vintage decontestualizzate ”con piccoli interventi dipinti e giochi di parole”.

Su un fondo argento antichizzato i solenni ritratti maschili, irrigiditi in uniformi e in abiti di ordinanza, riflettono la vacuità del loro potere, messo a nudo da un’impietosa e dissacrante aureola di parole che circonda le loro teste. Una demistificazione del potere fallocratico e narcisistico “che tende a confondere fra loro oggetto e soggetto e mostrare l’obiettivo per quello che è: un dolce piacere di comunicazione sessuale”. L’ambiguità del concetto di innocenza, sulle tracce della tematica che Camus scagliava dalle pagine dell’ ”Uomo in rivolta”, scrivendo ”solo le pietre sono innocenti”, ha fornito il titolo ad un itinerario artistico di grande suggestione, svoltosi alla Galleria Tolmar, in cui l’autrice viennese ha esposto la serie “Immagini di infanzia perduta”: una testimonianza della capacità dell’arte di sovvertire le certezze di facciata, invitandoci alla riflessione ”per distruggere le immagini dell’infanzia santificata”. Racconta Spiegel: “una volta le foto erano un privilegio riservato solo ai bimbi ricchi o molto religiosi”. Così, teneri infanti nudi accarezzano i loro esagerati organi genitali posticci; estasiate bambine con gli abiti della Prima Comunione accavallano le gambe in collant neri; altre in abiti di mussola e fiocchi hanno accessori sado-maso: sguardi innocenti e i segni delle future perversioni. “Così io corrodo le immagini della rispettabilità, ma sempre con una sorridente ironia”.

Sotto il suo charme di artista graffiante, capace di allietare i sensi e l’anima, di risvegliare la sonnolenta conformità che regola le consuetudini, affiora lo spirito della ”Grande Vienna” inizio Novecento, attraversata da quei rinnovamenti ideali e culturali che la resero la capitale intellettuale dell’Europa. Erano gli anni della nascita della psicanalisi con Freud, dei fermenti artistici della “Secessione” con Klimt, Schiele, Moser, e della grande letteratura di Schnitzler, Musil e Roth. Radici importanti e determinanti per lei. I sentimenti dell’animo umano, la corruttibilità del potere, la ricchezza della creatività femminile, i sogni, la sessualità, i pregiudizi, “i vizi privati e le pubbliche virtù”, sono i temi che ricorrono nelle sue opere. Con armoniosa alchimia associa le parole alle immagini come “motti di spirito” di freudiana memoria, per descrivere le sfaccettature dell’intimo femminile.
Anche i suoi video sono esplicativi. “Schulungshefte” illustra un divertente manuale di “anatomia e lussuria” per signore del secolo scorso, e non solo.
In “Institut Fur Heil und Sonderpadagogik” (nome dell’omonimo Istituto di ricerca creativo da lei fondato nel ’95) si susseguono le immagini del suo percorso artistico, iniziato nell’82 all’Università di Arti Applicate di Vienna e proseguito alla Scuola di Belle arti di Parigi. “Alma Malher”, femme fatale dal destino travagliato, è una musicista incompiuta, schiacciata dal genio del primo marito, Gustav, segnata dalla perenne ambivalenza tra la passione per gli uomini e quella per la musica, da una vita di dominatrice “dominata”.
“Anna Freud”, prigioniera dell’ingombro paterno e del pudore per gli amori femminili, sferruzza la lana instancabilmente, quasi a dipanare i fili della sua complessità che si libera e si riavvolge su se stessa, in un groviglio inestricabile di emozioni.

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Figure straordinarie di donne che nel bene e nel male hanno segnato la cultura e l’evolversi del costume, usate metaforicamente per ritessere una storia al femminile, “perché prima di essere generi specifici si è individui”. Spiega Michaela: “Le donne devono essere in grado di scegliere da sole i loro ruoli-simboli. Essere riconosciute donne artiste al giorno d’oggi è possibile solo se almeno una volta nella vita si è state anoressiche”, è la sua provocazione di “artista politicamente non corretta”. Un viaggio introspettivo doloroso, per riportare a galla quei luoghi sotterranei dell’anima, che le ossa spolpate dalla carne rivelano senza pietà, è la serie “ANNO…REX…IE”. Corpi aggraziati e fragili di donne nude decorano, in sequenze cariche di ambiguità, piatti di porcellana: un insolito cibo per indurre la mente ad una decodificazione fra l’immagine conforme agli standard mediatici dominanti e quella del proprio vissuto più profondo.

“I sex-symbol imposti dalla società degli uomini, costringono le donne ad assumere le sembianze di una caricatura di se stesse. E questo non avviene solo nella TV italiana”, precisa la Spiegel, che già nel 2006, nella sua serie “Catastrophies sexuelles”, surreale galleria di ritratti maschili, aveva inserito fra le celebrità coinvolte in condotte sessuali “borderline” anche Berlusconi. Scomoda, tanto da censurarla, creando un caso diplomatico con Vienna, fu considerata la sua installazione “Reagenzglaser/Test Tubes”, alla mostra “Arthur Schnitzler/Amore e Affetti” a Trieste nel 2008: le delicate sculture in vetro di Murano evocanti preservativi, insolito tributo all’erotismo letterario dell’autore di “Doppio sogno”, furono rapidamente rimosse. Il gusto per l’assurdo, il contraddittorio, il bello, il coreografico, convivono in un ordine mai casuale nei suoi lavori, avvolti ogni tanto da un filtro sognante, che ci ricordano quei souvenir “boule-à-neige” con i panorami innevati e incantati.

La sua scelta di eleganti broccati e sete vintage, sfondo su cui dipingere, serve per focalizzare i temi, rivelando storie segrete, dietro le apparenze. Così il “Doppio ritratto” di Simone de Beauvoir (che ricompone l’unitarietà frammentata di animo e corpo), nuda, sottile, con le ginocchia piegate per mostrare senza pudore il sesso, i capelli composti come sempre, il sorriso enigmatico, lo sguardo severo che ha attraversato il flusso della storia, ha fatto scuola nella mostra “Le deuxieme sexe et autres” alla School Gallery di Parigi, nel 2008. In un’altra opera, un castoro (nomignolo affettuoso ma sarcastico con cui Sartre alludeva alla sua instancabile operosità) le ondeggia tra le gambe ad indicare quella fragilità che neanche la forza dell’intelligenza può evitare.

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Arabeschi damascati circondano il ritratto di Rosa Luxemburg, genio politico e anima gentile. Il colletto di pizzo e il fondale di seta evidenziano lo sguardo volitivo di Bertha Pappenheim, antesignana del femminismo, così come della rivoluzionaria Alexandra Kollontay. Wallis Simpson, regina mancata, è incoronata dai suoi carlini con le zampine alzate nel saluto hitleriano. La “cattiva ragazza” Ulrike Meinhof sorridente e con le treccine, è il simbolo dell’innocenza perduta nella ricerca ossessiva di una libertà fuori dall’ordine sociale. L’imperatrice Sissi (come le debuttanti al Gran ballo) è imprigionata da una corona di diamanti che si trasformano in spine. Medaglioni ovali raccolgono “I peli pubici di Marie Bonaparte”, allieva di Freud che ricercava i segreti della sessualità femminile.

In un elegante cofanetto di raso, come un “laboratorio sperimentale portatile”, sono poggiate alcune “Ampolline della delicatezza femminile”, che contengono discretamente i “rilevatori “dell’eccitazione sessuale..Perchè tutto è misurabile per definire un’epoca e i suoi criteri estetici, densi di leggerezza e di profondità, quelli di Michaela Spiegel, che conclude: “L’arte per me è un indicatore dello stato d’animo della società, come un termometro culturale, a seconda del tipo e del modo di usarlo. Io personalmente preferisco quelli moderni, digitali, che si posano sulla fronte e si possono leggere in qualsiasi lingua, piuttosto che quelli più folcloristici che si usavano una volta. Ma riconosco che quest’ultimi misurano perfettamente gli incantesimi musicali di certi affabulatori populisti”.

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