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Anche in Iran le donne possono vincere… Se avranno il coraggio di non trattenere un uomo. Nei paesi islamici, il femminismo lo insegnano le madri-cantastorie, nelle Khavè-khanè (case del caffè), come testimonia l’antologia della scrittrice Gina Labriola “Sherazade lucana … ed altre storie di scarpe, lune, cuori spinati, sassi, zanzare…” (Index).Poetessa e affabulatrice, attraverso il filtro della sua arte tutto diventa mito, tutto si trasfigura e si perde nel tempo più remoto, col terrore che le immagini diventino illusioni.
Gina in Iran cercava e comprava tele dipinte, non per una fredda mania di collezionista: traduceva le storie che vi erano illustrate e se ne serviva per le sue narrazioni. Solo di fronte al “femminismo poetico” di Elahè Firouzadèh, protagonista del tredicesimo racconto, la scrittrice perde la funzione di narratrice, osservandola mentre dipingeva, preparava il tè o discorreva con gli amici: “Vedi, mi diceva, le donne possono vincere. Devono avere coraggio, più di quanto è necessario agli uomini, ma alla fine, possono farcela. Come Scerazade, come Golandàn”.
“E’ una storia che tutte le bambine dovrebbero conoscere – diceva Elahè – Golandàn era la schiava turca di Bahràm, un re presuntuoso come sono spesso i re e anche qualche volta i comuni mortali”. “E’ solo una questione di esercizio e di abitudine”, affermava, sfidando il sovrano, rifiutandosi di adularlo per la sua abilità di cacciatore, che la lasciava indifferente. Fu condannata a morte, ma salvata e nascosta da un cortigiano, in un suo castello, nel quale Golandàn si dedicò ad un esercizio quanto meno insolito e bizzarro: portava un toro sulle spalle, prima piccolino, appena nato, poi sempre più grosso, su e giù per le scale. Poi, dopo qualche tempo, il cortigiano confessa al re di aver salvato la turca indisponente e lo fa assistere allo straordinario esercizio col toro sulle spalle su e giù per le scale. Il re riconosce il torto, chiede scusa e si riprende la turca, vinto dalla costanza di una ragazza”.
Una biografia romanzata, ultimata con la collaborazione dei figli Alessio, Dario e Valerio, poco prima di spegnersi e disperdere le sue ceneri tra le valli della Provenza. Il titolo “Sherazade lucana … ed altre storie di scarpe, lune, cuori spinati, sassi, zanzare…” è stato discusso e scelto con l’autrice, quale giusto riferimento all’Iran e alla sua terra, la Lucania, visti attraverso il velo della mitica affabulatrice. Le fotografie, selezionate con Gina, sono di Dario Caruso. Esse non vogliono illustrare eventi o luoghi, ma essere liberamente evocatrici della sua poetica. Un’autobiografia reinventata, un’opera che, sentendo l’avvicinarsi della fine, la scrittrice aveva desiderato ultimare e pubblicare.
Un gioco di specchi ripreso dalla tradizione poetica iraniana, ma anche architettonica, attraverso cui la realtà appare frantumata e riflessa, quasi ad esprimere la complessità, l”imprevedibilità e l”inafferrabilità dell”anima di un paese, in cui tutto appare un miraggio. “Se alla base della civiltà occidentale vi è la logica di Aristotele imperniata sul principio di non contraddizione, per cui ogni cosa è quello che è e non può essere il suo contrario, l”approccio iraniano non è logico ma poetico, mitico, cangiante, favoloso. Gina è stata sedotta dall”Iran, che corrispondeva stranamente alla sua maniera di sentire e di stare nel mondo, al punto da intitolare ‘Alveare di specchi’ la sua raccolta di poesie, del 1974, e ‘In uno specchio la fenice’, quella del 1980”, spiega il marito Fernando Caruso, nella prefazione al libro.
Una prosa piana e scorrevole racconta, tra giochi metaletterari, personaggi, storie e favole, a Chiaromonte (Pz) come a Theran, a Marsiglia, in Belgio, a Parigi.
“Ma è poi veramente un libro o è la metamorfosi di un’ostrica che viaggiava in treno?”, si domanda l’autrice nel prologo. E forse, in virtù della sua arte incantatrice, Elahè altro non è che l’alter ego di Payandèh Shahandèh, docente di Belle Arti all’Università di Teheran che, nella prefazione alla raccolta ‘Poesia su seta’ (Edizioni Racioppi), intitolata “Dall’Iran a Parigi su ali di seta”, ha scritto: “Il mio sodalizio con Gina Labriola cominciò più di vent’anni fa, in Iran, quando lei collaborava all’Istituto Italiano di Cultura di Teheran, e io insegnavo Belle Arti all’Università. […]
In Iran, oltre alla ben nota tradizione delle miniature, che illustrano testi poetici, come quelli di Omar Khayàm, esiste un’altra interessante forma di espressione artistica: quella dei khalàm-khàr (lavoro con l’inchiostro). Sono tele dipinte, che illustrano favole tratte dai poemi di Nezamì o di Ferdowsi; talvolta, invece, fanno rivivere leggende popolari. Anche lei ha seguito per anni corsi di pittura su seta […] Non per seguire la moda, del resto superata, della poesia visiva o il grafismo, ma per rendere palpabili, concreti, i suoi raffinatissimi versi. Come nei kimono giapponesi o nei sari indiani, vuole che i colori intrecciati alle parole possano muoversi, avvolgere, parlare, ricordare”.
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