Ma è pericoloso dirsi femminista?

Una malattia infettiva da cui le stesse donne stanno alla larga, per non essere equiparate a erinni rabbiose, o streghe sciatte e misantrope... Di[Marika Borrelli]

Ma è pericoloso dirsi femminista?
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14 Agosto 2012 - 16.55


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Lo spunto mi è stato fornito da un’intervista del TimeMagazine a Caitlin Moran, columnist de The Times di Londra. La Moran è irriverente, anticonformista, schietta e per queste sue caratteristiche, a noi Italiani, appare provocatoria. Dice che in fondo sembrare grassi o magri è una questione di proporzioni, così – essendo lei piuttosto in carne – ha aumentato il volume dei suoi capelli, per creare una migliore proporzione con il suo corpo. La lezione sulle proporzioni è antica, solo che noi la dimentichiamo spesso.

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L’intervista della Moran ha una funzione appagante, al di là della rivisitazione dei canoni estetici. Il contenuto dell’intervista s’incentra sul ‘femminismo’, anche parlando di moda o di VIPs o dell’ultimo libro di soft-porno (il sopravvalutato best seller “Cinquanta sfumature di grigio”).
La Moran è convinta che non c’è nulla di estremista né di pericoloso a dirsi femministe, poiché più del 50% della popolazione mondiale è donna. Esistono più di tre miliardi e mezzo di modi per essere femminista, per cui il femminismo non è un movimento a parte, bensì un vero e proprio ‘partito di massa’.

Ciò mi ha ricordato un’altra intervista della stessa Moran, in cui raccontava: “Quando mi trovo a parlare con le ragazze, loro mi dicono ‘Io non sono una femminista’ ed io rispondo ‘Cosa? Vuol dire che non vuoi avere il diritto di votare? Vuoi essere una proprietà di tuo marito? Vuoi che il tuo stipendio vada a finire sul suo conto? Se tu venissi stuprata, vorresti ancora che lo stupro fosse un reato? Congratulazioni allora: Tu sei una femminista.”

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Penso che sia l’attitudine coraggiosa della Moran a farle rispondere così, perché è difficile affrontare il discorso sul femminismo. Pare una parolaccia, un malattia infettiva da cui le stesse donne vogliono tenersi alla larga, per non correre il rischio di essere equiparate a erinni rabbiose, o streghe sciatte e misantrope. Specialmente in questa nostra epoca ossessionata da canoni estetici ristretti e dall’imperativo di piacere a tutti e a tutti i costi.

(Ecco perché il ricordo dei canoni di proporzione della Moran è importante, tra l’altro.)

Dichiararsi femminista serve ad alienarsi una parte dell’uditorio, alimenta frasi di scherno e battutacce. Pure peraltro intelligenti ed acculturate donne di mezz’età temono di essere qualificate come femministe, per non alienarsi il gradimento degli uomini. Come repellente, purtroppo, già basta l’età!
Con una matura e intelligente signora, la quale dichiarava che la ruolizzazione estrema salva i rapporti di coppia, ho avuto questo piccola conversazione: “Allora, mi spiega qual è il suo ruolo.” “Faccio tutto ciò che a lui non va di fare.” “Succede anche l’inverso, ovviamente?” “Be’no. Non c’è nulla che non mi va di fare.” Fine della conversazione.

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È un vero peccato, per esempio, che le giovani generazioni di donne italiane non abbiamo compreso appieno l’importanza della legge 194 (regolamentazione sull’aborto), o della legge 40, sulla procreazione assistita. A tal proposito mi ricordo, durante la campagna referendaria sulla legge 40, di ragazze ventenni le quali erano stata inibite dai loro fidanzati ad andare a votare o solamente a parlare dell’argomento, vuoi per mancanza di una corretta informazione pubblica, vuoi per un malcelato orgoglio di maschi procreatori non ‘assistiti’! Inorridii.

Cosa ci vuole per cambiare il senso culturale ad una parola utile e necessaria come femminismo? Noi, in Italia, non abbiamo una Caitlin Moran, allegra e serena nelle sue esternazioni, e semmai l’avessimo, sarebbe bannata dal web, sommersa dai commenti dei troll, derisa da autorevoli soloni del giornalismo e dell’intellighenzia italica, bandita dai talk show o relegata in fascia protetta.

Eppure, basterebbe leggere qualche simpatica infographic dal sito MissRepresentation.com per capire come si è arrivati a delegare la nostra femminilità ed il nostro senso critico a canoni commerciali.

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