È la terza carica dello Stato ed è la terza donna, dopo Nilde Iotti e Irene Pivetti, che viene scelta per questo incarico. Parliamo di Laura Boldrini, eletta con Sel alle ultime elezioni italiane, e che oggi è passata con 327 voti (malgrado i 13 voti mancanti dell’area dei deputati del centrosinistra), in un Parlamento in cui siederà sulla poltrona della Presidenza alla Camera. Una doppia conquista perché oltre al fatto che ci sia una donna su quella poltrona, c’è anche che Laura Boldrini, 51 anni ed ex portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), ci sia arrivata per i suoi meriti, per il suo impegno e non per cooptazione maschile, e anche grazie al lavoro di tutte quelle donne che, dopo 20 anni di berlusconismo, hanno cominciato a far sentire la loro voce contro gli stereotipi femminili, per il diritto a una vita libera dalla violenza, e a spingere per avere un potere più consistente nelle loro mani. È per questi motivi, di merito personale e spinta collettiva femminile, che la sua elezione è un motivo di orgoglio per tutte le italiane, troppo abituate a vedere in luoghi di responsabilità o donne portatrici di una progettualità maschile (governo Monti), o anche scelte in base a scambi di favori di diverso genere (governi Berlusconi).
Il discorso di Laura Boldrini alla Camera, ha dimostrato che una donna che ragiona con la sua testa ha il potere e la capacità di sbaragliare un tavolo di discussione, fino a oggi guidato dai maschi su altro, riportando tutti su un terreno diverso anche in una sede istituzionale come la Camera dei deputati. Boldrini ha messo in chiaro in questo suo discorso, tutti gli elementi più urgenti di un Paese sull’urlo del baratro come l’Italia: ha parlato di immigrazione, lavoro, esodati, giovani, delle vittime della mafia, disabili, dei “detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante”, dei “pensionati che hanno lavorato tutta la vita e che oggi non riescono ad andare avanti”, ma soprattutto ha per la prima volta sbattuto in faccia a quell’assemblea il femminicidio di cui le donne italiane sono ostaggio, dicendo chiaramente che “Dovremo farci carico della violenza subita dalle donne travestita d’amore”, sottolineando che si tratta di “un impegno che sin dal primo giorno affidiamo al Parlamento”: parole che hanno provocato in aula una vera e propria standing ovation su cui anche alcune deputate Pdl si sono alzate in piedi per applaudire. Un atto che mi riempie di gioia perché in Italia la campagna contro la violenza sulle donne – femminicidio – è partita in maniera costante da queste pagine del manifesto online e da questo blog (battezzato appositamente Antiviolenza) dal 2010, quando nessuno si sarebbe mai sognato né di inserire la parola femminicidio nei suoi articoli – soprattutto dei grandi gionali e telegiornali – né tanto meno indicarlo in un discorso istituzionale generale come questo.
Nel corso della campagna elettorale, Laura Boldrini è stata una di quelle candidate che si è pronunciata apertamente e pubblicamente sul femminicidio prima di essere eletta, ed è stata la prima in assoluto a porre attenzione alla mia lettera aperta rivolta ai leader della sinistra, affinché parlassero dalle loro tribune di femminicidio e diritti dei minori, a cui hanno risposto poi Ingroia e Vendola. Ma se oggi si è arrivati a questo, è perché prima c’è stato un lavoro sui cui una parte delle donne italiane, in diversi ambiti, hanno continuato a combattere senza mai arrendersi malgrado non avessero risposta né dalle istituzioni né dai media. Circa tre anni fa la Casa delle donne di Bologna e l’associazione nazionale dei centri antiviolenza, DiRe, cercavano di far arrivare all’opinione pubblica quello che si svolgeva tra le mura domestiche italiane e che rimaneva però senza eco, in un contesto dove i centri antiviolenza erano sul lastrico perché gli enti locali tagliavano fondi, e già allora si parlava di “mattanza” perché le donne uccise per mano di ex partner, fidanzati, mariti erano già tante (troppe). Nel 2010 dalle pagine del manifesto online, Emanuela Moroli di Differenza Donna diceva che “La situazione più comune è la violenza in famiglia ma adesso stiamo sfiorando il 90%, e la cosa tragica è che sono sempre partner o ex partner o anche i parenti più stretti. Figure che più sono vicine e più sono pericolose con un livello altissimo di stalking che spesso sfocia nell’omicidio”.
Da quel momento il numero delle donne uccise in ambito di relazioni intime non è andato a diminuire ma a crescere, e sembrava che nessuno se ne accorgesse. Una svolta decisiva è stata però la Piattaforma Cedaw– che ha riunito il meglio delle associazioni che lavorano sul territorio nazionale sulle donne – e che ha portato nel luglio 2011 alla Commissione Cedaw dell’Onu, una lucida e realistica analisi sulla condizione delle italiane: un rapporto che le ong di un Paese che ha ratificato la “Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne”, può fare legittimemente, soprattutto quando il governo (come nel caso dell’Italia che allora era sotto Berlusconi) si dimentica di farlo. Da lì è cominciata una fitta campagna su contenuti che ancora i media italiani non trovavano così interessanti, e che le stesse istituzioni italiane stentavano a rendere pubbliche, come sottolineò in un chiarificatore intervento Violeta Neubauer (componente della Commissione Cedaw), nella Sala dei Mappamondi di Montecitorio nel gennaio 2012.
Insieme a lei in Italia c’era anche la Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, che nel suo monitoraggio sull’Italia rimase scioccata per l’incidenza della violenza domestica nella violenza contro le donne italiane (circa l’80-85%), quasi quanto fui scioccata io nel vedere così pochi colleghi giornalisti durante la conferenza stampa che Manjoo tenne prima di ripartire dall’Italia. Era chiaro che le Nazioni Unite fossero allarmate per quello che succedeva qui, tanto che Neubauer, prima di ripartire, disse chiaramente: “Se non cambiate gli stereotipi non vincerete mai”. Anna Pramstrahler della Casa delle donne di Bologna, coordinatrice della ricerca sul femminicidio nel Rapporto Ombra, sosteneva che il femminicidio risultava “aumentato nel corso degli ultimi 6 anni”, e che l’Onu già nel luglio del 2011 chiedeva all’Italia di svolgere ricerche e azioni per fermare questi delitti. “La cosa assurda – diceva Pramstrahler – è che mentre in Francia e in Spagna lo stato ha istituito un osservatorio speciale per il femminicidio, qui il Ministero degli Interni non ha mai avuto dati ufficiali”. E oggi, malgrado tutto quello che abbiamo fatto, siamo ancora così.
Dalla fine del 2010 a ora da queste pagine è cominciato un tam tam giornaliero sul femminicidio quando ancora nessuno ne parlava e con l’aiuto di Barbara Spinelli – avvocata penalista esperta sulla violenza maschile contro le donne a livello internazionale – è stato possibile rendere pubblica, su un quotidiano nazionale, un’importante documentazione internazionale su questi temi. Qui si è parlato di femminicidio e femmicidio, centri antiviolenza, delle sentenze, dello stupro di guerra e della 1325 (Risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu, “Donne , pace e sicurezza”), di come si affronta la violenza domestica su un piano psicologico, di ambiti giuridici e dei tribunali, di come si ascoltano queste donne, di violenza assistita dei minori, di Pas (sindrome di alienazione parentale), della violenza sulle bambine, di come i media trattano il femmincidio e come andrebbe trattato, della corretta informazione e dei pregiudizi culturali, dei corsi di formazione necessari per chi si occupa di intervenire sul fenomeno (compresi magistrati, polizia, giornalisti, ecc.), materiale da cui da più parti si è attinto a piene mani, e di cui sono orgogliosa perché si è data una reale spinta a un problema per troppo tempo sottovalutato e sottaciuto.
Ma il fatto che portò ad accendere un vero faro sul femminicidio da parte dei media, fu l’uccisione di Stefania Noce nel dicembre del 2011, una uccisione efferata per mano di un ex fidanzato che colpì ripetutamente la giovane studentessa, militante femminista, con un coltello da cucina, e che molti giornali battezzarono, ancora una volta, come “raptus”, “delitto passionale”, “omicidio per troppo amore”. Ed è stato in quel momento che con la Rete nazionale delle giornaliste italiane avviammo un dibattito con un mio documento sulla corretta informazione sulla violenza di genere-femminicidio, le cui istanze furono riprese dalle colleghe nelle rispettive redazioni per proporre-imporre un corretto linguaggio: non solo meno offensivo per le donne, ma soprattutto più aderente alla realtà, al fine di portare alla luce un fenomeno che non poteva essere più trattato come un mero fatto di cronaca nera e con movente di gelosia. E fu così che cominciò la vera campagna sul femminicidio, che non fu una parola semplice da far usare perché molti avevano dubbi “grammaticali”. Una campagna che ha dato effetti insperati, perché ha dato l’input per approfondire il fenomeno e per far riflettere anche gli uomini: è così che anche nomi famosi come Adriano Sofri, Roberto Saviano, Riccardo Iacona, hanno cominciato a virare la loro attenzione verso le donne e il femminicidio, ed è stato per il lavoro sotterraneo delle donne che tutto ciò è potuto succedere. Un risultato che è concretamente sfociato nella Convezione nazionale “No More” contro la violenza sulle donne-femminicidio, redatta dalle principali ong delle donne italiane e di cui ricordo ancora la prima riunione alla Casa Internazionale delle donne (io ero l’unica giornalista presente) dove Vittoria Tola dell’Udi e Francesca Koch della Casa Internazionale, ci chiesero di creare e lanciare una piattaforma comune contro la violenza sulle donne: un dialogo che è andato avanti fino a coinvolgere migliaia di donne e di uomini su una piattaforma contro la violenza che oggi vorremmo vedere accolta anche da un ancora incerto governo.
Questa storia l’ho voluta raccontare, anche se per sommi capi, non per far vedere che siamo brave, ma perché la vittoria di avere Laura Boldrini, oggi, su quella poltrona, è una vittoria di tutte le donne e che ciò accade quando le donne sostengono le politiche delle donne; e per sottolineare che se oggi il parlamento si è alzato in piedi alla parola “violenza subita dalle donne”, è perché ci sono state donne che malgrado fossero inascolate, malgrado fossero poche e disgregate, malgrado le loro differenze, hanno continuato a lottare per qualcosa che era giusto venisse alla ribalta: il diritto delle donne ad avere una vita libera dalla violenza.