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Partiamo dal cuore del problema: una nuova strategia di riconoscimento del ruolo, della dignità, del diritto ad una cittadinanza piena delle donne deve forse passare per quella ”Rimozione degli ostacoli” che la nostra Costituzione evoca all”articolo 3.
Lo stesso con cui la Carta fondamentale sancisce il principio d”uguaglianza, il più celebrato dei suoi articoli. Ma per una volta, non il suo primo comma, che stabilendo il principio di uguaglianza formale, rimane il più invocato dai cittadini ed il riferimento costante degli uomini di legge.
Rimuovere gli ostacoli è il dovere che alle istituzioni viene assegnato dal Costituente nel secondo comma: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l”uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l”effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all”organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Non parla solo di noi, delle donne. Ma certamente parla anche di noi. Di quella sorta di occulta segregazione in cui siamo ancor più scivolate negli anni bui di questa nostra seconda Repubblica.
Può essere allora questo il faro che fuga le ombre che avvolgono le politiche women oriented, ammantate da quel politically correct che ha ammesso il solo strumento delle pari opportunità? Può essere questa la bussola per orientare la lunga, ininterrotta marcia dei movimenti vecchi e nuovi verso più avanzati traguardi di parità sostanziale sul modello europeo?
Se questo è il compito della Repubblica nata nel ”48 e dovere delle sue istituzioni, se lo è ancora nel terzo millennio, è diritto prima di ogni altro delle donne stesse, di tutte le donne, sollecitarne l”adempimento.
Di quante a partire si ritrovano a Paestum per ragionare della ”Rivoluzione necessaria” , di quante il 26 del mese saranno a Roma per l”Assemblea generale di Se non ora, quando?, delle donne delle associazioni.
E se la prospettiva d”inversione del lungo e critico ciclo economico che ha minato la coesione del Paese fosse reale, se nel futuro prossimo si potesse motivatamente nutrire fiducia nella ripresa di un processo di sviluppo prima di tutto civile, se risultassero credibili le previsioni degli analisti che la fine della congiuntura economica peggiore del mondo postmodermo non lascerà le cose come stanno, non dovremmo anche noi donne interrogarci su come debba trasformarsi questo Paese perché diventi anche finalmente un paese per donne?
Pensare a quale modello di sviluppo, maturare una nuova idea di società, ragionare su una più umana qualità della convivenza civile, su come riscrivere un nuovo patto fra generazioni, fra uomini e donne, fra garantiti e non, fra inclusi ed esclusi, fra cittadini e quanto tali non sono riconosciuti?
Se la risposta è sì, gioverà che ogni segmento del movimento delle donne ridisegni un suo particulare progetto? O non è forse più produttivo che, superando sterili antagonismi, separatismi datati, esaltazioni di differenze quando non parossistiche ricerche e rivendicazioni identitarie, le donne scommettano sulla propria prorompente potenziale forza di cambiamento per spingere nella direzione voluta?
Le donne e le loro forme aggregate producono giornalmente una encomiabile mole di elaborazioni, di pensiero critico, di analisi raffinate e di proposte concrete. Ma, ammettiamolo, con scarsa incidenza sul pesante gender gap che rifila all”Italia la coda di qualunque classifica e senza sortire l”effetto di rimuovere gli ostacoli alla loro effettiva partecipazione alla vita politica e sociale del Paese, e, dunque, alle scelte fondamentali.
Il volto del Paese deve cambiare profondamente, ce lo diciamo ogni giorno, e questa mutazione non potrà aver luogo senza di noi! Ma dobbiamo volerlo. Proprio come avvenne nel fortunati anni ”70, la stagione del più lucido e coraggioso protagonismo delle donne che sul piano dei diritti politici, civili, sociali e della famiglia ha cambiato l”identità della nazione.
Se le donne fossero unite, se le donne potessero misurare in un progetto comune, rivoluzionario la potenza della loro creatività, se le donne riuscissero a percepirsi, pur nella pluralità e nel valore delle differenze, come una comunità non riconosciuta, quando non negata…
Se le Donne con la D, le Donne che marciano in gruppi, in associazioni, in movimenti, spingendo o trainando tutte a non avere paura, a rivendicare la propria soggettività, a farsi riconoscere, quelle Donne che parlano di noi e per noi….
Ecco: se quelle Donne scegliessero di rimuovere l”ostacolo autoimposto della loro frammentazione e si sfidassero per progettare insieme quella democrazia matura, inclusiva, giusta che dovrà delinearsi una volta dissolto l”incubo della crisi economica, evolutasi nel frattempo in crisi democratica e civile, allora la parola cambiamento si potrà spendere in tutta onestà.
All”appello simbolico delle giovani generazioni, la cui prevalente distanza dai movimenti costituisce quel limite alla naturale staffetta dell”impegno femminista, verso quelle ragazze che oggi non pongono domande sull”identità di genere ma che si proiettano preoccupate nel loro futuro di adulte, potremmo non avere alibi. Potremmo dover rendere conto della nostra credibilità e della miopia politica, di non aver saputo cogliere l”occasione della trasformazione. Perchè divise, troppo divise!
La contaminazione è possibile, urgente, si può sperimentare con l”espressione originale di un modo libero di guardare al futuro, di cercare il futuro, di costruire una visione. In un work in progress che non è vergare insieme pagine bianche con parole che appaghino il desiderio della trasformazione. Ma un”idea forte, irresistibile che faccia da sfondo e che si irradi in un protagonismo fresco, coraggioso, solidale delle donne, nelle loro elaborazioni, nella loro iniziativa politica e culturale.
E se, sorprendendoci e rivoluzionando ogni cosa dell”umana vita, è papa Francesco a voler esaltare nella Chiesa “la donna e la sua dignità”, lasciamoci stupire anche da noi stesse e, nel rispetto delle nostre diversità, inauguriamo un nuovo inizio. Proviamoci, gioiosamente, come ci piace. È proprio nell”Elegia della Gioia infatti che Muriel Rukeyser incoraggia: “bisogna curare gli inizi, coltivarli. Perchè non tutte le cose sono sacre, ma i semi di ogni cosa lo sono”.
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