In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio, e il verbo era Dio. Al di là del credo religioso, l’incipit del Vangelo di Giovanni sottolinea significativamente il valore della “parola”.
La parola definisce la cosa, da significato, la parola è potente e detenere la parola è potere. La parola costruisce senso comune e cultura. E l’estetica della parola spesso passa in secondo piano rispetto appunto al senso, al significato, alla costruzione di cultura che la parola si porta dietro.
Forse femminicidio non è una bella parola, certamente non piace alla collega Franca Leosini, ma è altrettanto certamente una parola da difendere e utilizzare ogni volta che un uomo uccide una donna per affermare il proprio possesso sul suo corpo e su di lei. Perché questo è il punto. Femminicidio non è l’assassinio di una donna per regolamento di conti, per rapina, per vendetta mafiosa. Femminicidio è una fattispecie di reato precisa che prima di valore giuridico ha appunto valore sociale e culturale.
Le donne hanno faticato molto, e tra queste in prima linea alcune giornaliste, affinchè quel termine si affermasse e desse senso agli oltre 100 assassini di donne l’anno, affinchè proprio grazie a quella parola si cominciasse a costruire la cultura della libertà contro la violenza degli uomini sulle donne. Ed è proprio per questa ragione che quella parola dà fastidio, crea “scandalo” o dovrebbe farlo, perché appunto definisce e descrive il modo malato con cui gli uomini si relazionano con le donne.
Potere, predominio, subordinazione e sopraffazione sono le parole legate a femminicidio, sono quelle che descrivono le ragioni che portano a quello specifico assassinio. Tutte insieme chiamano o dovrebbero chiamare in causa i maschi. Probabilmente non siamo riuscite a istillare negli uomini il tarlo del dubbio, la volontà di interrogarsi e mettersi in gioco per modificare la relazione improntata sul potere.
Ma quella parola ha certamente contribuito a svelare a molte donne la natura della relazione con il proprio uomo che fosse marito, compagno, padre o fratello. Ha contribuito alla costruzione di un senso comune e speriamo di una cultura. Non ha contribuito alla diminuzione della violenza sulle donne dei femminicidi. Ad affermarlo è un uomo, il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi che in apertura dell’anno giudiziario ha detto: “Nel contesto positivo del calo degli omicidi con uomini come vittime – 297 nel 2019, dato inferiore a quelli che si registrano in media negli altri Paesi Ue – è ancora più drammatico il fatto che permangono pressoché stabili, pur in diminuzione, i cosiddetti femminicidi”. Secondo Salvi questi specifici reati sono “emergenza nazionale”. Eccolo il potere delle parole, il magistrato avendo a disposizione un termine per definire una cosa riconosce il fenomeno, lo distingue dagli assassini e ne afferma la rilevanza. Se quella parola non fosse esistita quel riconoscimento sarebbe stato possibile?
Ma vi è anche un’altra riflessione, o meglio un interrogativo, che l’affermazione sconcertante della Leosini mi suscita. Perché una donna professionalmente affermata definisce in maniera così sprezzante una parola cosi faticosamente affermata dalle donne? E ancora perché conduce una trasmissione intervistando il colpevole di femminicidio descrivendo le donne come angeli del focolare? Insomma se è vero, come io credo sia, che le parole sono potenti definire brutto il termine femminicidio e utilizzare, invece, parole che ricacciano in ruoli stereotipati le donne, mi induce il sospetto che il tema che andrebbe messo all’ordine del giorno è quello del rapporto delle donne con il potere.
Noi donne giornaliste abbiamo una responsabilità, grande, le parole sono lo strumento del nostro mestiere, dobbiamo avere forte la consapevolezza della potenza delle parole e usarle con misura e consapevolezza. Almeno io questa responsabilità, e anche questo privilegio, me la sento tutta sulle spalle.