Il libro della storica reporter de Il manifesto Giuliana Sgrena Me la sono andata a cercare parla di conflitti, di sopraffazione, di violenza, di promesse non mantenute su mille fronti caldi, racconta 40 anni di backstage del mestiere dell’inviata di guerra, secondo un’idea di giornalismo che può essere solo “boots on the grounds”, per parafrasare il linguaggio militare, con l’avvertenza che nulla è più lontano da Sgrena del modello di giornalismo “armato” tanto in voga in questo tempo di guerre combattute ai nostri confini fin sulle prime pagine dei giornali.
Ma nel corso di 185 pagine dense, drammatiche, talvolta anche picaresche per gli stratagemmi che una reporter squattrinata deve inventarsi per raggiungere destinazioni impossibili, colpisce una ricorrenza, quella della parola “amica”. Sgrena la usa 30 volte: in ogni capitolo, in ogni angolo di mondo il racconto ci introduce ad una fitta rete di relazioni con le donne del posto, che con il loro sguardo aprono a nuove letture sul contesto geopolitico, stravolgendo stereotipi o pregiudizi. Una “complicità femminile”, dice l’autrice, che diventa anche strumento di conoscenza. L’esperienza più forte, anche umanamente, è l’incontro con le donne e le femministe algerine negli anni Novanta, durante la guerra civile con il Fis (Fronte islamico di salvezza). Attiviste, militanti e intellettuali con le loro parole, con le loro azioni e con i loro corpi convincono Sgrena che un certo “relativismo culturale” anche da parte della sinistra e del pensiero femminista, accondiscendente nei confronti della cultura islamica non giovi alla causa delle donne. Poi ci sono le curde, che hanno inventato lo slogan “Donna, vita, libertà” fatto proprio dalle iraniane, le afgane, le somale. Ed è sconcertante notare come in tutti i teatri descritti nel libro, attraversati da guerre e conflitti decennali, dove albergavano delle speranze, la condizione della donna sia drammaticamente peggiorata: apartheid di genere in Afghanistan, veli scuri sui corpi delle somale, minacce da ogni direzione nei confronti dei curdi.
Amiche sono anche le giornaliste, più che colleghe, come Maria Grazia Cutuli e Ilaria Alpi, uccise mentre facevano il loro lavoro. Sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin Sgrena ha una convinzione netta: che con la tesi dell’omicidio per coprire uno scoop si sia imboccata una strada sbagliata, che ha impedito di fare giustizia e ha occultato una verità più semplice ma persino più scomoda, ovverosia il risentimento dei somali nei confronti degli italiani che durante l’operazione Restore Hope non avevano fatto solo cose buone.
Amarissima la riflessione di Sgrena: se fossi tornata morta sarei diventata un’eroina, invece sono tornata viva e quindi per il mondo me la sono andata a cercare e mi porterò sempre questa croce addosso. Il prima e il dopo lo scandisce, infatti, la tragica vicenda del suo sequestro in Iraq nel 2005 conclusasi con la morte dell’agente del Sismi Nicola Calipari nel corso della sua liberazione, ucciso da fuoco amico americano. Vent’anni dopo la giornalista sente l ’esigenza di rispondere con nettezza “sì, me la sono andata a cercare” e di superare quel trauma ricostruendo le ragioni di un mestiere che per onestà intellettuale si può fare solo in quel modo, andando nei posti anche i più pericolosi, per vedere con i propri occhi quello che succede. E che invece perde di senso trasformandosi in giornalismo embedded, asservito anche solo per necessità logistiche ad una parte o all’altra. Solo così, come testimone in diretta, Sgrena smantella il racconto della popolazione che applaude alla caduta del tiranno a Bagdad mentre nelle piazze abbattono le statue di Saddam: nessuna folla plaudente, solo giornalisti o figuranti. Ed è solo essendo sul posto, cercando di parlare con i testimoni, che la giornalista de Il manifesto può documentare l’uso del fosforo bianco a Falluja da parte degli americani, ragione della sua missione in Iraq nel momento in cui venne rapita. Su cui al suo ritorno scriverà uno scoop, scopiazzato e pubblicato poi da altri, ma nessuno glielo riconoscerà. Nella sua storia e nello stigma che l’ha perseguitata in tutti questi anni pesa certamente il genere: a molti giornalisti, purtroppo è toccato di essere sequestrati in condizioni drammatiche ma in definitiva solo a lei, all’epoca, Enzo Biagi disse: «Perché non è rimasta a casa a fare la calza?»
Me la sono andata a cercare. Diari di una reporter di guerra, di Giuliana Sgrena, Laterza, pagg.185, 17 euro.
