Rita Atria, la ribelle di Sicilia | Giulia
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Rita Atria, la ribelle di Sicilia

'Sono passati vent''anni dalla morte della ragazza-coraggio che disse no alla mafia, contro la sua famiglia: suicida dopo l''assassinio di Borsellino. Di [Flavia Piccinni]'

Rita Atria, la ribelle di Sicilia
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11 Agosto 2012 - 23.00


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Capelli spettinati. Un bel sorriso. L’aria spensierata che si ha da adolescenti. A vent’anni dalla sua morte, è ancora questa Rita Atria.
Un’immagine congelata per sempre in una fotografia. Una giovinezza troncata dalla paura e dalla certezza che niente, dopo aver parlato in terra di mafia ed essere diventati collaboratori di giustizia, potrà mai tornare come prima. Perché ci sono cose che non si possono aggiustare, e se cresci a Partanna – nemmeno 10mila abitanti nel cuore della valle del Belice, quella devastata dal terremoto del ’68 e balzata a più riprese alle cronache nazionali per corruzione e mafia – ci sono cose che devi imparare a conoscere da subito.
Se cresci figlia di un boss, sorella di un aspirante boss, devi imparare immediatamente ciò che si può dire, e ciò che si deve tacere. Devi imparare che tutto ha delle conseguenze.

Oggi che sono trascorsi vent’anni dal suo suicidio, di Rita Atria non si parla più. Non si parla più di quest’adolescente che rivelò all’Italia ancora in lacrime per gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come le storie di Cosa Nostra avrebbero segnato la definitiva perdita dell’innocenza del nostro Paese. Un confine di sangue netto e devastante, che avrebbe battezzato una guerra di trincea, un braccio di ferro dagli esiti imprevedibili e dai risvolti inquietanti, fra Stato e Mafia.

Oggi non si parla più della bella Rita dai capelli scuri e dagli occhi grandi. Rita che a dodici anni aveva visto il padre Vito, piccolo boss di Partanna, ammazzato da Cosa Nostra, e che a diciassette anni aveva perso a colpi di lupara anche l’amatissimo fratello Nicola, freddato davanti alla pizzeria che aveva appena aperto in paese. Dopo questo, ennesimo, lutto, aveva deciso di collaborare con la giustizia. Di fare come la cognata Piera Aiello che, vedova di Nicola, aveva cominciato a raccontare tutto quello che sapeva sulle dinamiche criminali di questo piccolo comune vicino Trapani.

E così, un pomeriggio d’autunno anche Rita Atria era diventa Rita “la ribelle”. Si era allontanata dalla madre Anna Trinciari. Aveva preso le distanze da quella famiglia dentro cui era nata e cresciuta, e che la mafia aveva smembrato. Aveva incontrato i magistrati Alessandra Camassa prima, e Massimo Russo poi. Aveva incontrato Paolo Borsellino, che coordinava l’inchiesta, e di lui si era fidata profondamente. A lui aveva cominciato a rivelare tutto quello che sapeva. Tutto quello che aveva ascoltato in casa, e quello che il fratello Nicola, un pesce piccolo della malavita locale proprio come il padre, le aveva confessato.

Allora Rita Atria che non aveva neppure diciotto anni, che non aveva ancora fatto gli esami di maturità – cui sarebbe andata scortata da quattro carabinieri, raccontando nel suo tema della morte di Falcone – si era pentita. Aveva raccontato degli snodi malavitosi di Partanna, aveva detto quello che suo fratello le aveva confidato, aveva parlato dell’omicidio del vicesindaco dc Stefano Nastasi, colpevole – a suo dire – di intralciare la rielezione di Vincenzo Culicchia.

Aveva detto abbastanza per farla battezzare in paese come una picciridda dalla lingua lunga. Abbastanza per farla rinnegare dalla madre. Abbastanza per essere costretta a lasciare la Sicilia, e cercare riparo a Roma in un condominio di via Amelia, al numero 23. Abbastanza, soprattutto, per decidere un pomeriggio di fine luglio del 1992 – il 26 per la precisione – di lanciarsi dal balcone dell’appartamento al settimo piano dove viveva. Di lanciarsi nel vuoto per morire.

Era esasperata, Rita. Era preoccupata. Credeva che sarebbe stata soltanto una questione di tempo: presto la Mafia l’avrebbe uccisa. Avrebbe fatto fare anche a lei la fine di suo padre, di suo fratello. Si sentiva impotente e piccola. Si sentiva indifesa e le sue parole, le parole che scrisse prima di aprire la finestra e lasciarsi andare, sono simili allo strazio della solitudine che tanti collaboratori di giustizia in questi anni hanno raccontato.

“Sono rimasta sconvolta dall’uccisione del procuratore Borsellino, adesso non c’è più chi mi protegge, sono avvilita, non ce la faccio più” aveva scritto. Due righe soltanto, prima di ammazzarsi.
“Piera, se me ne vado non piangere, non provare dolore” aveva sussurrato qualche giorno prima alla cognata.

Perché per Rita non aveva più senso vivere senza il giudice che aveva ascoltato la sua confessione. “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.
 Tutti hanno paura ma io l”unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un autoesame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c”è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci.
Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta” aveva scritto ancora, alcuni giorni prima di suicidarsi. E in quel “senza di te sono morta” c’era tutta la disperazione di una giovane donna convinta di essere condannata a un destino infelice. Di una donna abbandonata a se stessa. Costretta ad affrontare una vita che credeva essere senza speranza.

Ma, forse, Rita aveva ragione. Dopo la morte di Borsellino, era ancora più sola. Il giorno del suo funerale, poi, di tutti gli abitanti di Partanna nessuno andò a salutarla. C’era soltanto il prete. Alcuni giornalisti. Neppure sua madre entrò in Chiesa per piangerla. Nel suo paese Rita era per tutti una “fimmina lingua longa e amica degli sbirri”. E questo in terre di mafia è peggio di una condanna. Una condanna che sua madre Anna per segnare quel confine netto e invalicabile che doveva esserci fra lei, fra la sua famiglia di gente d’onore, e la figlia traditrice, e la figlia pentita, sottolineò con un gesto che vale più di tutte le parole: alcuni mesi dopo la morte di Rita, andò con un martello al cimitero per spaccare la tomba della figlia. Ruppe il marmo tombale. Fece a pezzi quella bella fotografia di una ragazzina dall’aria felice e spaesata davanti al mondo che da oltre vent’anni – vent’anni di silenzio, vent’anni in cui Rita è stata dimenticata e a darle voce resta solo l’associazione palermitana che porta il suo nome – ha smesso di ricordare la sua storia coraggiosa. La sua adolescenza spezzata che racconta ancora oggi come la cosa più pericolosa sia essere lasciate sole. Non avere il tempo per ricordare.

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