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Pubblichiamo l”introduzione di Assunta Sarlo al convegno sulla legge 194 – affollatissimo, a cui ha partecipato, tra i tanti interventi, anche Lella Costa. In allegato il “manifesto”, a cui si può aderire firmando al sito http://www.change.org/it/petizioni/manifesto-per-la-piena-attuazione-della-legge-194-78.“Parlare con la mia voce, altro non ho voluto” dice la Cassandra di Christa Wolf.
Perché mi è venuta in mente questa associazione? Proprio perché parlare con la nostra voce è lo scopo di questa giornata ed è il pensiero sotteso al manifesto delle proposte per l’attuazione della 194 che proponiamo.
Parola e dati. Espressione di sé e numeri. Siamo partite da qui, quando mesi fa, ci siamo messe intorno a un tavolo. Su quel tavolo c’erano due cose: i numeri, appunto, che ci dicono che asfittico presente e che problematico futuro vive la legge 194. Perché la realtà è diversa, e peggiore, rispetto a quanto – già preoccupante – fotografa il Ministero della Salute.
E poi le parole e le domande e le discussioni. Da subito abbiamo messo a fuoco un tema: lo stesso, se ci pensiamo, che ci aveva portato in piazza nel 2006, nascita di Usciamo dal silenzio.
Si può condensare in una parola: esproprio. Esproprio di esperienza, della vicenda che, a partire dalla sessualità, attraversa il corpo delle donne e che, in questo, ci fa, tutte , eguali. Lo scriveva Adriano Sofri a Giuliano Ferrara, ai tempi oscuri e prevaricatori della moratoria sull’aborto (ci dimentichiamo in fretta di cosa accade in questo paese e ci dimentichiamo di tracciare linee di continuità di questa inesausta crociata, ora aperta ora strisciante).
Fermati su quella soglia, di là non ci puoi essere tu ma solo (e sola) una donna, non puoi dire “ho abortito tre volte” ma invece il più contorto “per tre volte donne in cui sono stato hanno abortito”. E’ una questione di sovranità territoriale, non violare quella frontiera, scriveva Sofri a Ferrara. Aggiungo: è una frontiera comunque inviolabile, piaccia o non piaccia persino alle donne, si condivida o non si condivida con il proprio compagno l’esperienza dell’aborto.
E poi c’è l’esproprio della parola coscienza, come se fosse il primato morale e il riconoscimento sociale tributato a chi obietta e non l’esercizio, faticoso e responsabile, di chi sceglie se diventare o no madre. E, accanto a lei, è l’esercizio responsabile di chi sceglie, da medico o infermiere, di prestare la propria competenza a che quella volontà si compia nel modo più sicuro e non giudicante possibile.
La lista delle parole che ci sono state espropriate, che hanno visto torcere il proprio senso a scopo ideologico è lunga. Ce n’è una però sulla quale occorre soffermarsi, perché ha attraversato il nostro lavoro e lo ha interrogato persino sulla sua legittimità.
Quella parola è silenzio, ed è il silenzio che circonda, da parte di chi l’attraversa, l’esperienza dell’aborto. I motivi sono tanti, alcuni stanno nelle biografie di chi abortisce oggi, ci diranno chi sono le ginecologhe. Ci siamo chieste: e noi, molte di noi arrivate ad una soglia di età che esclude quell’esperienza, come possiamo provare a dire, ad avere parola su questo? Pensiamo che la risposta sia affermativa, che possiamo e dobbiamo avere parola nel dialogo, che pure si è verificato nella preparazione a questo convegno, con le più giovani, ma anche in nome di altri due concetti. L’empatia, non so come altro chiamarla, ovvero la condivisione dell’esperienza del corpo femminile di cui dicevo all’inizio e la responsabilità. Maddalena Vianello, in dialogo con sua madre Mariella Gramaglia nel libro “Tra me e te”, le imputa che il cestino dei regali, dono della generazione che ha fatto il femminismo alle trentenni di oggi, si è scoperto vuoto.
Bene, in quel cestino la 194, nella sua concretezza ma anche nel suo portato simbolico che si rifà alla scelta e all’autodeterminazione, non può mancare e noi non possiamo assistere al suo svuotamento strisciante senza pensare che è anche affare nostro, nostra responsabilità. Da condividere, come faremo con il nostro manifesto di proposte, con il movimento delle donne di cui siamo parte, base di una piattaforma che ci dovrà vedere discutere con gli attori politici, seppur non sfugge a nessuna la difficoltà di questo momento.
Senza però che questa difficoltà funzioni, come talvolta accade persino a noi, per depotenziare il nostro lavoro perché c’è sempre qualcosa d’altro che viene prima, che appare più urgente o più importante. Credo, ed è solo una parentesi, che questo elemento costituisca un pezzo – ce ne sono molti altri che non attengono alle nostre scelte – della fatica che il movimento delle donne vive nell’affermarsi come interlocutore forte nel disegnare le politiche di questo paese.
E dunque, partendo dalle parole e dai dati, siamo arrivate a mettere a fuoco il punto di vista e le parole chiave di questo convegno: la domanda che è via via nata intorno al tavolo è stata quella del nostro titolo “Cosa vuole una donna, cosa vogliono le donne” durante quella vicenda che attraversa il loro corpo e la loro vita? Spezzare il silenzio che circonda l’esperienza dell’aborto significa riprendere questo punto di vista, quello delle donne, e attraversare con questo filo rosso tutti i temi – obiezione di coscienza, organizzazione del lavoro, ruolo dei consultori, questioni di diritto – che sono parte delle nostre proposte.
Abbiamo scritto, nel nostro manifesto, che occorre ridare dignità etica e scientifica all’aborto in quanto atto medico come gli altri e non Cenerentola o problema da risolvere nell’organizzazione ospedaliera.
Ciò può succedere soltanto se, al centro di quella scena e dunque al centro delle pratiche di chi accoglie e cura ma anche al centro del discorso pubblico intorno all’aborto, ci sono le donne, i loro bisogni, le loro parole o, anche e persino, il loro silenzio.
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