Ceyda Karan, una storia di tensione, paura, impegno e speranza | Giulia
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Ceyda Karan, una storia di tensione, paura, impegno e speranza

La giornalista turca è accusata di vilipendio alla religione. La motivazione, aver pubblicato accanto a un editoriale la vignetta simbolo di Charlie Hebdo. di [Claudia Stamerra]

Ceyda Karan, una storia di tensione, paura, impegno e speranza
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8 Marzo 2016 - 20.54


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L’otto marzo 2016 lo ricorderà come un giorno di trepidazione, nell’attesa che la sua vicenda giudiziaria arrivi alla fine. Domani ci sarà ancora un’udienza a Istanbul. Ceyda Karan, giornalista turca, è accusata di vilipendio alla religione. La motivazione, aver pubblicato accanto a un editoriale la vignetta simbolo di Charlie Hebdo. “Je suis Charlie” ha fatto il giro del mondo dopo l’attacco dei terroristi al foglio satirico francese, scatenando polemiche nel mondo islamico. La sua corsa si è fermata nella capitale di una Turchia che appare allontanarsi da quel modello di paese moderno e laico pensato da Ataturk. A Roma, alla giornata voluta dalla commissione pari opportunità della Federazione Nazionale della Stampa a sostegno delle giornaliste minacciate, Ceyda Karan ha raccontato la sua storia di tensione, paura, impegno e speranza.

“Sono una giornalista e cerco di informare al meglio. Al tempo delle rivolte di Gezy Park, quando masse di persone avevano occupato quella zona, sono stata licenziata da un canale tv per aver raccontato fedelmente quei fatti. Quando è avvenuto il massacro di Charlie Hebdo, abbiamo deciso di pubblicare alcuni esempi delle vignette della rivista, ma non in prima pagina. C’è stata una discussione all’interno del giornale, Cumhuryet, perché non tutti erano d’accordo. Alla fine io e un collega abbiamo pubblicato la vignetta più famosa, “Je suis Charlie” accanto ai nostri editoriali. Un atto giudicato offensivo dal governo, Charlie Hebdo è un giornale anarchico e il pubblico ministero ha ritenuto che ci fossero gli estremi per accusarmi, insieme al mio collega Hikmet Centikaya, di offesa alla religione e all’ordine pubblico”.

La Turchia del recente passato ha una lunga storia di riforme alle spalle. In che rapporto è con la legge islamica?

In Turchia non vige la sharia, la legge islamica, siamo ancora un paese laico. Le leggi che governano la stampa, però, sono cambiate drasticamente negli ultimi anni e sono diventate molto dure con i giornalisti. Praticamente se un contenuto non piace si può accusare chi scrive di qualunque cosa.

Rischia una pesante condanna?

Il procuratore ha chiesto da due a sei anni per la vignetta. Abbiamo avuto già un’udienza a gennaio e ci sono volute più di tre ore per spiegare le linee della nostra difesa. E’ un caso molto difficile da definire, perché gli stessi giudici hanno posizioni non del tutto omogenee. Per esempio, uno di loro ci ha detto che forse potremmo ottenere il perdono se lo chiedessimo in nome della fede. In ogni caso non tutti i giudici hanno visto la vignetta e secondo alcuni di loro il reato consiste nell’aver pubblicato, semplicemente, un’immagine che raffigura Maometto. Per noi è una questione di libertà. Non abbiamo offeso nessuno. Ormai il rischio che i giornalisti siano accusati di vari reati è presente in ogni istante. Dopo la primavera araba molte leggi si sono inasprite, come quelle sulla sicurezza nazionale, e i media all’opposizione hanno iniziato ad avere problemi e perdere terreno. In ogni caso Cumhuryet, il mio giornale, ha una lunga storia, significa “Repubblica”. Resta un baluardo della democrazia e del laicismo anche se il mio direttore, Can Duendar, rilasciato grazie a una decisione della Corte Costituzionale dopo tre mesi di carcere, potrebbe essere arrestato di nuovo e per le medesime ragioni.

Comӏ la vita a Istanbul e in Turchia?

Vado a lavorare, esco, mi muovo con una certa apprensione. Da quando sono sotto processo per il caso Charlie ho la scorta della polizia, perché la possibilità che io venga attaccata da militanti estremisti spuntati dal nulla è realistica. Ci sono gruppi che tentano di innescare forti meccanismi di radicalizzazione religiosa coinvolgendo un grandissimo numero di persone e anche se la democrazia non è un autobus dal quale si può scendere facilmente la questione è preoccupante. Quindi se esco senza scorta ho paura e mi guardo sempre le spalle. Devo farlo. Ci sono molti giornalisti nella mia stessa posizione. Alcuni hanno una guardia del corpo, altri no.

Qual è il futuro della libertà di stampa in Turchia?

Considero la lotta per la libertà di espressione e la democrazia una battaglia fondamentale, che combatto ogni giorno con i miei colleghi. Certamente sapere che siamo sostenuti a livello internazionale in questo senso, che ci sono persone che possono unirsi a sostegno dei giornalisti turchi che vivono situazioni difficilissime, ci è di grande aiuto.

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