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Storie di sopravvissute: “La violenza uccide dentro”

Roger Solomon, esperto in disturbi post traumatici sulle donne violate, ospite a Cagliari di GiULiA Sardegna e Odg. Il caso di Noa [di Federica Ginesu]

Storie di sopravvissute: “La violenza uccide dentro”
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25 Giugno 2019 - 15.37


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di Federica Ginesu

 

Non ci sono solo i lividi, i graffi e tutti i segni tangibili delle botte e dei maltrattamenti. La violenza si incide anche nell’anima lacerandola e frantumandola.

«Respiro, ma non vivo più» diceva Noa Pothoven, la ragazza di diciassette anni che si è lasciata morire in Olanda. Noa soffriva da tempo di un disturbo post traumatico da stress che l’aveva colpita dopo una serie di violenze sessuali subite quando era bambina. 

«Il mio corpo si sente ancora sporco. Rivivo la paura, quel dolore ogni giorno. Sono sempre spaventata, in guardia» aveva scritto nel suo libro “Winnen of Leren” (Vincere o imparare), dove ha raccontato il suo grido di dolore. Una vicenda intrisa di un’atroce sofferenza che parla delle conseguenze degli abusi e delle molestie, spesso minimizzate o trascurate. Hanno invece delle ripercussioni devastanti. Noa ha smesso di lottare e si è spenta in quel dolore che era troppo grande da sopportare.

Le alterazioni della psiche sono frequenti in chi ha subito abusi e influiscono anche quando lasciano le mura domestiche e arrivano nelle aule di tribunali. Per tutelare le persone sopravvissute sono necessarie competenze giuridiche, supporto psicologico e la capacità dei media di fare cronaca nel rispetto della dignità delle persone.

Un tema delicato e complesso che è stato affrontato nel corso di formazione per giornalisti e giornaliste, avvocati e avvocate, psicologici e psicologhe “Violenza nelle relazioni familiari. Da questione privata a questione sociale. I profili clinici e giuridici del disturbo post traumatico da stress”, iniziativa organizzata da GiULiA Giornaliste Sardegna e Ordine dei giornalisti della Sardegna, ideata dalla socia GiULiA Sardegna Daniela Pinna, giornalista dell’Unione Sarda,  e moderata dalla socia GiULiA Alessandra Sallemi, giornalista della Nuova Sardegna.

Un incontro, seguito da oltre 400 persone, che ha coinvolto anche l’Ordine degli Avvocati di Cagliari e l’Ordine degli Psicolgici della Sardegna.  Un momento di riflessione su tre piani: quello della conoscenza, dell’etica e della deontologia giornalistica. «Un’iniziativa multidisciplinare come questa serve a fornire gli strumenti utili per poter offrire ai lettori cronache rispettose e corrette. Una giusta narrazione mediatica, con l’adozione di tutte le misure di protezione dei dati sensibili della persona e nel rispetto della privacy, credo rappresenti un contributo irrinunciabile per la nostra crescita sociale» ha detto Susi Ronchi, coordinatrice Giulia Sardegna.

Relatore d’eccezione del corso il professor Roger Solomon, psicologo clinico. Consulente del Senato Usa e della NASA, Solomon è tra gli ideatori della EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) per la rielaborazione del trauma (tecnica che sfrutta i movimenti oculari per metabolizzare gli eventi traumatici) e ha curato tante donne sopravvissute a molestie sessuali.

«Il ricordo del trauma – spiega Solomon – si incide dentro l’anima di chi lo subisce. La memoria di questi eventi terribili rimane bloccata, separata da tutto il resto. Il cervello non è in grado di elaborarla, quindi la congela per permettere di farci andare avanti. Ma qualcosa può far riattivare il trauma. Immagini, pensieri, percezioni che portano a rivivere quel dramma di continuo. Questa è la dissociazione post traumatica da stress». È una forma estrema di difesa della psiche in cui la personalità si frammenta per “disconoscere” l’esperienza intollerabile, che rimane però viva a livello inconscio e può condurre a gravi forme di disagio psichico e sociale.

In un video che Solomon proietta nell’Aula Magna della Corte d’Appello di Cagliari, sede dell’incontro, c’è una donna che sta cercando di elaborare il trauma che ha vissuto. A sei anni è stata violentata da un giardiniere.

Senso di colpa, vergogna sono gli stati d’animo che la donna ha continuato a provare per anni. «Non dovevo essere là, potevo evitarlo. Volevo mandarlo via, ma non ci riuscivo. Ero come congelata. Incapace di fare nulla» dice affranta.

I suoi genitori non si erano accorti che la loro figlia aveva subito degli abusi. Quando tornava a casa, dopo le violenze, si sentiva invisibile.

«Non c’era nulla di diverso, eppure tutto era diverso. Questa – spiega Solomon – è la definizione perfetta di dissociazione post- traumatica. Quella bambina ha continuato a vivere la sua quotidianità, mentre quei momenti così drammatici rimanevano come separati. C’è poi un altro aspetto: l’attaccamento traumatico verso l’abusante. La bimba si presentava nel luogo della violenza perché era l’unico posto in cui si sentiva in qualche modo visibile. Qualcosa che la donna non era riuscita mai a perdonarsi».

Le violenze uccidono dentro, sono lutti dell’anima difficili da superare. È importante quindi che le persone sopravvissute agli abusi siano credute, che la loro voce sia ascoltata e che siano individuate le conseguenze non solo fisiche ma anche psicologiche degli abusi. « È fondamentale in sede processuale riconoscere i traumi dell’anima» ha affermato durante il suo intervento Gilberto Ganassi, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari.

Il percorso è ancora lungo. Prima bisogna abbattere tutti quei luoghi comuni nocivi che continuano a sminuire le conseguenze delle violenze sessuali.

«Nei tribunali – afferma l’avvocata Valeria Aresti, esperta di tutela delle donne e dei minori, che ha portato al corso la relazione “La violenza invisibile nelle relazioni familiari tra pregiudizi e stereotipi giudiziari” – resiste un apparato invisibile che crea un pregiudizio sulle donne che subiscono violenza. Gli stereotipi entrano in tribunale attraverso i testimoni, la polizia giudiziaria, gli imputati, gli avvocati, i giudici. Se alla vittima di violenza sessuale viene chiesto come ha reagito, come era vestita, se ha urlato oppure no, automaticamente viene introiettato il pregiudizio che abbia qualche responsabilità nella violenza che ha subito per i suoi comportamenti. Subirà un’altra forma di violenza non meno grave della prima che ha subito: la vittimizzazione secondaria».

Una discriminazione contro le donne che è alimentata dai miti della cultura dello stupro, frutto di una società maschilista e patriarcale come la nostra: «Il relatore speciale dell’Onu sull’indipendenza dei giudici – ha spiegato Aresti – ha affermato che in tutto il mondo i processi di violenza di genere sono inquinati dal pregiudizio nei confronti delle donne.

Devono corrispondere al modello della “vittima perfetta”, una donna che non va in giro da sola e deve essere sempre in allerta, ha il dovere di controllare che non la droghino, che non la facciano bere troppo, indossa un abbigliamento che la deve coprire adeguatamente, non deve uscire di sera la notte, non può accettare un passaggio in auto, non deve frequentare certi locali e andare a ballare, non deve accettare di fare una passeggiata in spiaggia una sera d’estate, non deve fidarsi di nessuno nemmeno dei suoi amici, non deve avere avuto troppe relazioni sessuali, e l’ultima, che risale a una sentenza molto recente, “non deve essere mascolina” perché si è inventata tutto.

Per essere creduta deve ricordare ogni dettaglio di quello che le è successo; non può essere reticente e non esitare mai; non può ritrattare anche se ha paura di essere uccisa altrimenti è una calunniatrice e ha dichiarato il falso. Durante la violenza deve aver urlato, perché se è rimasta in silenzio allora era consenziente.

Nei reati di maltrattamenti in famiglia, invece, se non denuncia il marito non è una buona madre perché è debole e ha fatto vivere i figli nella violenza; se denuncia troppo tardi le violenza non è credibile perché non si capisce come abbia aspettato tanto.

La verità è che le donne, a volte, non trovano la forza di denunciare perché hanno paura di perdere i loro figli. Nei tribunali viene ancora invocata la Pas ( sindrome da alienazione genitoriale) che non ha alcun fondamento scientifico. Capita persino che i periti del tribunale ordinino il collocamento del minore in comunità, lontano dalla madre vittima di maltrattamenti perché considerata un ostacolo al rapporto con il padre maltrattante.

Qualunque comportamento abbia tenuto la donna che ha subito violenza rischia di essere quindi sempre sbagliato perché è deformato da pregiudizi e stereotipi».

Lucia Perra, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cagliari, ha invece parlato della tutela della donna-vittima nel procedimento penale a partire dalla querela fino alla esecuzione della pena. Il tempo è un fattore chiave. Per la legge italiana la persona sopravvissuta alla violenza ha sei mesi da quando è accaduto il fatto per presentare una querela. «Il tempo che serve a elaborare un trauma così forte spesso non coincide con quello sancito dal nostro ordinamento – afferma Angela Maria Quaquero, presidente dell’Ordine degli psicologi di Cagliari che parlato di “Aspetti dissociativi nelle famiglie con pratiche violente. I limiti della legge che impone la denuncia entro sei mesi”. Spesso sono necessari lunghi e impegnativi anni di terapia prima che la vittima di violenza superi il trauma e ritrovi la sua identità. Non deve essere colpevolizzata, nè rivittimizzata. Su di lei non ci devono essere stigmi sociali. Deve essere aiutata perché trovi la forza di andare avanti e poter dire senza remore “sono una  sopravvissuta”.

 

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