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Quello che gli odiatori vogliono: oscurare le giornaliste

Un convegno alla Statale di Milano sull'hate speech. Parte una ricerca sulla responsabilità dei media nella costruzione dei discorsi d’odio. La testimonianza di Angela Caponnetto. [Di Paola Rizzi]

Quello che gli odiatori vogliono: oscurare le giornaliste
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Paola Rizzi Modifica articolo

30 Ottobre 2019 - 19.38


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«L’ultimo messaggio mi è arrivato ieri, non ho nemmeno voglia di leggerlo, ma finisce con zoccola», Angela Caponnetto, coraggiosa inviata di Rainews, prova quasi ogni giorno sulla sua pelle cosa significa essere vittima di odio online.

E’ il bersaglio ideale: secondo tutti i sondaggi e le ricerche, in testa all’hate speech sui social ci sono le donne e i migranti (vedi la mappa dell’intolleranza di Vox Diritti), che si passano il testimone da un anno all’altro e, nel settore dei media, le vittime più bersagliate dagli haters sono i giornalisti investigativi e le giornaliste (dossier Reporters sans Frontiers 2018), a prescindere dal settore che coprono.
Caponnetto è donna, giornalista d’inchiesta, si occupa di migranti e ha seguito tutte le vicende più calde relative agli sbarchi di Lampedusa, anche a bordo delle navi delle Ong. Bingo.

E’ stata quindi la testimone/testimonial naturale del convegno che si è svolto lunedì 28 alla Statale di Milano dal titolo “Dall’Odio on line alla violenza di genere” con un focus particolare sul ruolo dei media,  promosso dall’Università Statale, Vox diritti e Giulia.

«I primi attacchi li ho ricevuto nel 2016 – ha raccontato Caponnetto-. Sono stata messa in un fotomontaggio con Laura Boldrini e altre donne, ben più importanti di me. Venivamo etichettate traditrici della patria da ambienti della destra estrema. Il clou lo si è raggiunto dopo l’ultima missione sulle navi umanitarie. A quel punto non sono più stati solo estremisti di destra, ma anche politici in vista a mettermi alla gogna sui social. L’ex ministro Salvini, il senatore leghista Bagnai. I loro commenti hanno scatenato una valanga di insulti da cui non si sono mai dissociati. Persino un tecnico Rai mi ha minacciata sui social ed è ancora lì al su posto».

Normale dialettica, per quanto brutale, secondo lo spirito dei tempi? No se l’attacco colpisce la persona, in particolare il suo genere ed è condito di insulti sessisti: «Quello che ho registrato è che i miei colleghi uomini che facevano servizi simili ai miei non hanno ricevuto questi tipi di aggressioni, non gli è capitato che circolasse in rete una loro foto circondata da uomini di colore con scritte allusive ai miei gusti sessuali. La differenza è che se sei una giornalista donna, per screditarti usano il tuo corpo. Dopo il post di Bagnai che si chiedeva com’è che mi avevano assunta in Rai, domanda al limite lecita, ma poteva fare un’interrogazione parlamentare invece che lanciarla nel web, sono seguiti commenti violenti e volgari, dai quali lui non si è minimamente dissociato, quindi di fatto autorizzandoli».

Un procedimento applicato da tempo: tra i primi a farne uso Beppe Grillo nel suo blog, quando nel 2014 inaugurò la rubrica “il giornalista del giorno” che metteva all’indice un giornalista che avesse scritto qualcosa di sgradito al leader o al M5s. La prima gogna venne riservata alla giornalista dell’Unità Maria Novella Oppo: il peggio furono le centinaia di insulti dei commentatori, pubblicati senza alcuna moderazione.

 

Ma come ci si difende? L’esperienza di Caponnetto denuncia la difficoltà di avere strumenti giuridici adeguati: «Io ho denunciato, ma sulla gran parte degli insulti che ricevo si può fare poco, l’avvocato mi ha sconsigliato». I social sono ancora un territorio selvaggio del diritto, dove il far west è legittimato da sentenze come quella che ha recentemente assolto un tale che aveva pesantemente insultato la coppia Fedez Ferragni con la motivazione che sui «social si scrive fuori da ogni controllo» e quindi il reato di diffamazione non si configurerebbe.

Sulla necessità di un intervento normativo si è espressa la costituzionalista  Marilisa d’Amico, costituzionalista, prorettrice a legalità, trasparenza e parità di diritti alla Statale, sottolineando la necessità di contemperare nel caso del linguaggio d’odio l’articolo 21 della costituzione sulla libertà di espressione nella cornice dell’articolo 3 sulla pari dignità di tutti i cittadini. Se è vero che, come ha sottolineato la giornalista Silvia Brena, cofondatrice di Voxdiritti, che la mappa dell’intolleranza evidenzia che ai picchi di messaggi d’odio contro le donne su twitter corrisponde anche un aumento di crimini e violenze sulle donne, ossia si passa dalle parole ai fatti, la domanda da porsi, seondo D’Amico,  è questa: «E’ libertà di manifestazione del pensiero introdurre parole violente che possono essere tradotte in azione? E poi quanta comunicazione violenta “tollerata” limita lo sviluppo della società secondo quanto auspicato dalla costituzione?».

Se nella Ue si calcono 26 leggi che in qualche modo si occupano di hate speech, in Italia domina il vuoto normativo con varie proposte di legge presentate negli anni, una delle ultime dalle senatrici Pd Boldrini e Fedeli e un dibattito fresco fresco avviato dal Italia Viva sull’ipotesi improbabile di identificazione di tutti i profili social. L’avvocata Ilaria Li Vigni ha sottolineato come a spuntare le armi contro l’odio on line ci sia stata anche la depenalizzazione dell’ingiuria, ridotta ad illecito amministrativo. Con l’unica eccezione dell’ingiuria in ambito militare, motivata dalla Corte Costituziona con le specifiche regole che devono sovrintendere alla convivenza tra militari e anche, e per la prima volta è detto esplicitamente, per contrastare  «l’insorgenza di ingiurie di natura sessista, a seguito dell’accesso delle donne al servizio militare». 

Ma per aggirare l’ostacolo per tutti gli altri Li Vigni ha suggerito di introdurre per il reato di diffamazione l’aggravante della discriminazione di genere. Un’accelerazione che però la presidente di Giulia Silvia Garambois ha contestato ricordando che se mai uno dei problemi dei giornalisti di oggi, donne e uomini, sono  le querele temerarie. «Tra l’altro come Giulia abbiamo sostenuto la battaglia di Caponnetto insieme ad altri organismi come Fnsi e Usigrai, ma guarda caso dall’ambito di Casapound è stata annunciata querela solo a noi».

La battaglia oltre che normativa è soprattutto culturale. Lo ha ripetuto Silvia Brena annunciando che il tema del prossimo report di Vox diritti  in collaborazione con Giulia sarà dedicato alle responsabilità dei media nella costruzione dei discorsi d’odio e di misoginia, con l’obiettivo poi di proseguire il lavoro nelle scuole: «Quando lavoriamo nelle classi riusciamo a far confrontare i ragazzi che hanno compiuto atti di bullismo o cyberbullsimo con le conseguenze delle proprie azioni. Dal punto di vista educativo dobbiamo imparare a intervenire sullo spettro positivo delle emozioni per contrastare i discorsi d’odio». 

La prima discriminazione parte dal linguaggio e i media hanno un carico pesante di responsabilità: «Serve un flusso di notizie in cui le donne non siano un’appendice – ha detto Garambois –  e non siano sotto rappresentate, a partire dalle parole che si usano. Perciò abbiamo iniziato a lavorare sul linguaggio a partire dalla formazione. Ministra, non ministro. Docente ordinaria, non ordinario. E quando si parla di violenza di genere uscire dagli stereotipi del raptus assolutorio nei confronti dell’assassino e del sistematico discredito della vittima, secondo quanto stabilito anche dal Manifesto di Venezia  che indica i criteri per una corretta informazione contro la violenza sulle donne».

Chiudere la bocca alle donne che fanno informazione con intimidazioni, minacce e insulti  è un problema serio di libertà, democrazia, quindi di diritti umani. Caponnetto ha detto che lei non ha mai pensato di togliersi dai social per sfuggire agli attacchi «anche se a volte mi costa».  Non è sempre così: secondo uno studio del 2018 dell’IWMF (International Women Media Foundation), il 63% delle giornaliste nel mondo è stata minacciata online.  In un documentario the dark place, alcune di loro raccontano di aver pensato di rinunciare alla loro visibilità, di nascondersi. Quello che gli odiatori  vogliono.

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