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La violenza invisibile sulle donne disabili

Non hanno voce, spesso non sono nemmeno riconosciute nel loro essere donne, eppure rischiano due volte di più di essere oggetto di abusi. Ne hanno parlato Marina Calloni, Lisa Noja e Silvia Cutrera [di Paola Rizzi]

La violenza invisibile sulle donne disabili
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Paola Rizzi Modifica articolo

8 Maggio 2020 - 12.09


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Emanuela è una ragazza  di 34 anni affetta da tetraparesi spastica, si muove su una sedia a rotelle, fa un po’ fatica quando parla. Le piace andare a cavallo e fare ippoterapia. L’incubo si materializza quando lei ha 17 anni, un giorno in cui il suo fisioterapista non c’è e il sostituito, siccome piove, le propone di fare “attività nella stanzetta”. «Ti faccio fare un esercizio che ti rimetterà in piedi». Lei non capisce bene cosa sta succedendo, lui la stupra. A casa racconta tutto alla madre, che le spiega cosa le è successo. Senza esitazioni vanno a denunciare l’aguzzino, che si scopre un violentatore seriale. Viene condannato ma è tornato libero. «Ora ho paura che lo rifaccia a qualcun altra – dice Emanuela – che non parla e non ha la mia capacità di dire alt». E’ una delle storie durissime raccontate nel breve documentario Silenzi interrotti, regia di Ari Takahashi, realizzato nel 2018 da Fish (Federazione italiana per il superamento dell’Handicap) e Differenza donna e proiettato al Festival dei Diritti Umani che quest’anno, in streaming,  ha trattato il tema della disabilità sotto il titolo “Da vicino nessuno è disabile”.
 

La violenza sulle donne disabili è ancora un tema oscurato, tabù: «L’idea che le donne con disabilità siano donne e in quanto tali soggette alla violenza non è culturalmente considerato: la donna con disabilità è considerata asessuata e se qualcuno viene considerato così fa più fatica a riconoscere e denunciare la violenza subita». A dirlo la parlamentare di Italia Viva e avvocata Lisa Noja,  che ha partecipato al panel del Festival su “Donne e disabilità: rompere il silenzio della violenza” con la sociologa (e Giulia) Marina Calloni e con Silvia Cutrera, vicepresidente di Fish.  Noja, disabile, è la promotrice della mozione  approvata all’unanimità dal Parlamento nel settembre 2019 che chiede al governo ad assumere impegni concreti sul tema della discriminazione multipla ai danni delle donne con disabilità: dal contrasto alla violenza sessuale, alla parità di accesso alla medicina di genere, il diritto di autodeterminazione anche rispetto alla sfera della sessualità e dell’affettività, il diritto all’inserimento lavorativo e alla maternità.

Secondo i dati dell’Unione Europea una donna con disabilità rischia da due volte di più di essere oggetto di violenza e discriminazione. «Anche quella della violenza di genere è una pandemia – ha detto Calloni – e lo dice l’Oms, in quanto fenomeno sovranazionale e transculturale. È la seconda causa di morte dopo il tumore e ha un impatto anche sulle disabilità, perché si diventa disabili anche a causa della violenza. Un tema trattato  per la prima volta nel 1995 alla conferenza di Pechino dove si è sottolineato l’importanza di dare un sostegno alle donne disabili». 

Uno dei problemi è la mancanza di dati, perché le donne disabili sono invisibili, come ha detto Noja e loro stesse fanno fatica a riconoscersi come vittime. E nel caso di disabilità psichiche anche a comprendere ed esprimere il proprio vissuto. «Esiste anche la paura a denunciare perché più che in altri casi si è spesso totalmente dipendenti delle persone di cui si è vittima – dice Calloni – l’abusante spesso è una persona vicina, un operatore o addirittura del contesto familiare».

Preziosa quindi la ricerca realizzata da Fish e Differenza Donna tra 2018 e 2019 seppure su un campione ancora piccolo, come ha tenuto a precisare Silvia Cutrera. Su  519 donne con disabilità più o meno gravi tra i 30 e i 60 anni, interpellate tramite un questionario online, il 36,7% ha dichiarato di avere subito un qualche tipo di violenza  e nell’80% conosceva la persona che aveva compiuto l’abuso. Nell’8% dei casi si trattava di un operatore. Solo il 37% delle donne che ha dichiarato di aver subito una qualche forma di violenza tra quelle indicate ha affermato di aver reagito. Fra queste una quota più residuale di donne ha deciso di confidarsi, in cerca di aiuto, con la propria rete di familiari e amici (6,5%) o si è rivolta al servizio competente, ossia ad un Centro antiviolenza (5,6%).  Dal 2017, ha ricordato Noja,  sono state  introdotte le linee guida per le autorità sanitarie su come trattare le violenze sulle donne disabili. Tenendo conto che l’invisibilità, per esempio dal punto di vista sanitario, tocca le donne disabili anche in sensi molto concreti. Come ha ricordato Noja, partendo dalla sua esperienza concreta: «Provate a pensare cosa significa andare a fare una visita ginecologica per una donna in carrozzella».

 

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