Un monitoraggio condotto da SELMEC in collaborazione con il Servicio de Noticias de la Mujer de América Latina y el Caribe (SEMLac) e la WACC (World Association for Christian Communication) ha analizzato come la stampa cubana affronta il tema della violenza maschile, rivelando quanto la rappresentazione mediatica rimanga frammentata, episodica e priva di un reale approccio di genere. L’indagine, che ha adattato alla realtà cubana la metodologia del Global Media Monitoring Project (GMMP), ha preso in esame quasi duemila articoli pubblicati da quattro testate online– Cubadebate, Juventud Rebelde, Girón e 26 – nel periodo tra novembre 2024 a marzo 2025, valutando frequenza, contenuti, autori e linguaggi.
Solo lo 0,86% dei contenuti monitorati tratta esplicitamente la violenza di genere. Nella maggior parte dei casi, il tema emerge solo in concomitanza con giornate simboliche come il 25 novembre o l’8 marzo, confermando una copertura “a intermittenza” che riduce il problema a evento e non a fenomeno strutturale. Le notizie si concentrano su fatti isolati, spesso raccontati con un linguaggio impreciso – termini come “crimine passionale” o “violenza domestica” sono ancora comuni – e senza riferimenti alle cause culturali e sociali della violenza.
Il 70% dei testi analizzati è firmato da giornaliste donne, ma la loro produzione rimane confinata a temi “sociali” o “culturali”. Gli uomini dominano ancora le sezioni politiche, economiche e sportive. Questa segregazione tematica riproduce nel giornalismo le stesse asimmetrie di potere che la ricerca tenta di smascherare. Il lavoro dei media cubani è inoltre frenato da barriere strutturali. Le giornaliste e i giornalisti intervistati citano la mancanza di formazione specifica (46%), la scarsità di tempo e risorse (53%) e il basso interesse editoriale (36%) tra i principali ostacoli.
Grave anche la quasi totale assenza di dati (51%) e di linee editoriali che orientino verso un’informazione etica e continuativa. Mancano informazioni utili alle vittime – numeri di emergenza, centri di ascolto, reti di supporto – e raramente vengono date voce a sopravvissute o organizzazioni della società civile.
Il monitoraggio denuncia anche forme di violenza simbolica, come l’uso di immagini sensazionalistiche, la rivittimizzazione e la narrazione centrata sull’aggressore.
Nei casi più gravi, la rappresentazione tende a naturalizzare la violenza, rafforzando stereotipi di genere e ruoli patriarcali. Una parte del giornalismo, sottolinea il rapporto, finisce così per essere non solo testimone, ma riproduttore degli stereotipi.
Nonostante i limiti, il rapporto riconosce alcuni progressi rispetto al passato: cresce la consapevolezza del ruolo dei media e l’impegno di alcune testate, come Juventud Rebelde, nel trattare il tema con maggiore sensibilità. Tuttavia, la sfida resta quella di trasformare la visibilità in comprensione, di passare dall’evento all’analisi, dal caso singolo alla denuncia delle cause strutturali. Come conclude la ricerca, «i media possono essere parte del problema o della soluzione». La differenza la farà la capacità del giornalismo cubano – e non solo – di adottare un approccio femminista, intersezionale e meno episodico, in grado di contribuire alla costruzione di una cultura della non violenza.
L’autrice è presidente del Cospe