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"Il lavoro delle giornaliste non è neutro"

Marina Pivetta non c'è più. Protagonista combattiva della scena femminista dell'informazione, fondatrice e direttrice di testate lascia una eredità di analisi sempre di grande attualità.

"Il lavoro delle giornaliste non è neutro"
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30 Gennaio 2020 - 00.17


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Marina Pivetta non c’è più. La sua attenzione al mondo dell’informazione femminista e femminile, il ruolo delle giornaliste nei giornali generalisti, vanno ben oltre le note biografiche. Una combattiva e combattente presenza nei luoghi delle donne, che portava sulla carta stampata (quel giornalone rosa confetto…) le cronache inesistenti altrove.

Il suo “Paese delle donne” ricorda oggi “le tante redazioni femministe che ha fondato e diretto, l’impegno giornalistico nel “Quotidiano dei lavoratori” e nelle testate cartacee, radiofoniche, telematiche femministe che ha in modo determinante contribuito a realizzare e/o ha ispirato – “Radio Donna”, “Quotidiano Donna”, “Paese delle donne” in Paese Sera, “Il Foglio de il Paese delle donne” e “paesedelledonne-on line” – nel suo lavoro giornalistico, professionista, speso in Rai e in altri luoghi di promozione delle politiche autonome delle donne, si sono arricchite del suo coraggio, della sua audacia e onestà intellettuale, della sua capacità di anticipare, mediare e risolvere le relazioni tra donne, tra gruppi e movimenti dei tanti cui ha partecipato, guardando al mondo. Che, da stanotte, è più povero”.

Per ricordarla riproponiamo stralci di una sua testimonianza sul volume collettivo “La disparità virtuale – Donne e mass media” (a cura di Gioia Di Cristoforo Longo), uscito nel ’95 alla vigilia della Conferenza di Pechino, in cui Marina Pivetta propone una analisi attualissima su come le giornaliste possano e debbano restituire protagonismo alle donne. Una riflessione importante, che spiega anche perché tutte noi le dobbiamo qualcosa.

Un’informazione che tenga conto della diversità di genere

Le nuove tecnologie legate all’informazione e gestite da potentati economici trasformano la notizia in un evento virtuale capace di vita propria. Il o la protagonista del fatto viene immediatamente reso oggetto multiuso da consumare in tempi rapidissimi. Un’utenza sempre più affamata, vittima di un’ingordigia acritica, viene trasformata da soggetto in oggetto clonabile a fini consumistici. E il o la giornalista? Ahimè, sempre più ricattabile. Se non si adegua può perdere lo stipendio ma anche lo status sociale, uno dei più ambiti in questo caotico fine millennio.

Questa è la situazione che va per la maggiore; però altri comportamenti la contraddicono. Se da una parte si parla, e a ragione, di grande fratello, dall’altra, un’infinità di esperienze si muovono come anticorpi per garantire all’umanità una coscienza di sé non completamente manipolabile. Ed è proprio all’interno di queste esperienze che ha fatto breccia un giornalismo attento anche alle differenze di sesso e quindi non omologato alla cultura universale maschile così marcatamente eurocentrica; un giornalismo che non solo è riuscito a cogliere la differenza di genere ma, partendo da questa, è riuscito a fare molta attenzione anche ad altre differenze. Un giornalismo che ha dato priorità ai soggetti, siano essi sorgente o foce dell’informazione.

Vorrei partire dall’esperienza di un giornalismo femminista e, uso questo termine perché negli ultimi trent’anni il femminismo ha inciso profondamente all’interno di questa professione. Non c’è stato soltanto un aumento del numero delle giornaliste nelle redazioni, centinaia collaborano ormai dall’esterno come free- lance; anche se non tutte, molte però, hanno saputo competere e vincere su contenuti e linguaggio, meno su titoli e immagini, scelte, spesso, da chi ha in mano la direzione della testata.

Il femminismo ha dato priorità ai soggetti, ha riscattato le donne dall’essere considerate oggetto del desiderio maschile, o contenitore di una prole che garantisca la discendenza ai padri.

Il comportamento culturale, ma anche politico, delle giornaliste che si dichiarano femministe è riuscito a far breccia contrastando un giornalismo aggressivo, violento, voieristico, ha fissato così i presupposti per una nuova deontologia professionale.

Spesso incontriamo, nelle redazioni dove lavoriamo, colleghe che ritengono che non ci sia alcuna differenza tra un uomo e una donna nel portare avanti questo lavoro e, il sentirsi così neutre, fa leggere loro il mondo con un’unica lente: quella maschile.

 

Manifestano una totale incapacità nel cogliere le dissonanze, i dislivelli di un linguaggio simbolico che garantisce solo le forme stereotipate dell’agire di uomini e donne secondo antichi codici di rappresentazione del comportamento politico, culturale, sociale. In tutte le testate, senza alcuna differenza – c’è una scansione indifferenziata – prima le pagine di politica, poi le pagine della “cultura alta”, seguono quelle della cultura massmediologica, chiude la cronaca cioè il sociale. È inutile dire, in questa piramide di valori, quale sia la collocazione delle donne il risultato è un protagonismo marginale o del tutto assente.

Per spiegare meglio faccio un esempio: su un articolo di «Repubblica» a firma di una giovane collega un giorno è stata nominata la testata che io dirigo scrivendo: il foglio del «Paese delle donne», settimanale non femminista (?) è diretto dalla moglie di ….. viene omesso il mio nome e cognome, ma viene, invece sottolineato il mio stato civile cancellando così la mia soggettività di persona, il mio protagonismo a vantaggio di quello del mio compagno. Il mio agire professionale non omologato è forse indicibile? Scandaloso? Irrilevante?

È così che, ancora nella maggioranza dei casi, la nostra identità ci viene riconosciuta solo nella mappatura della genealogia maschile. Questa collega non si è resa conto che così facendo perpetuava una gerarchia di valori che emargineranno prima o poi anche lei.

Queste donne, insieme alla quasi totalità dei giornalisti, tendono a non mettere in luce il protagonismo femminile perchè proiettano sulle altre il profondo senso di disvalore che hanno sul proprio genere, lo assumono, senza accorgersene, dalla cultura maschile. Da questo disvalore hanno tentato di fuggire adottando le più stravaganti tecniche mimetiche.

Spesso, queste giornaliste sono state costrette a fatiche disumane per essere considerate degne di stima dai loro colleghi, anche meno capaci. Tutte queste cose, del resto, sono state dette e ridette anche da un’ampia letteratura e da una non meno conosciuta cinematografia, ma evidentemente il processo di trasformazione è molto lento.

 

Se noi giornaliste vogliamo modificare l’esistente, dobbiamo garantire pari opportunità di accesso per le donne sulla scena del protagonismo politico, culturale, sociale. Per poter, in concreto, far questo, è necessario darsi delle regole. Faccio un esempio: se devo costruire una notizia da un fatto che ha per protagonisti uomini e donne darò voce alle donne o alla donna.

Se il fatto non ha protagoniste femminili, cosa che accade spessissimo nella politica di palazzo, nello scrivere l’articolo potrò  svelarne l’assenza motivandola. Così la lettrice o il lettore si renderà conto che il mondo è popolato da uomini e da donne e che queste, ormai, non sono più chiuse a doppia mandata nelle case. In questa maniera darò una doppia notizia, quella di un iperprotagonismo maschile nella politica istituzionale o di partito e l’assenza delle donne. A questo punto dovrò chiedermi anche se è una assenza voluta o imposta…

 

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