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Il documentario di Amnesty International, “Still on the Frontline” racconta delle donne che in Bosnia-Erzegovina sono state vittime di stupri di guerra.
La guerra è finita nel 1995, eppure le donne reclamano ancora il riconoscimento delle violenze subite.
Dice Amnesty International “La violenza di genere non ha inizio quando la guerra ha inizio, non finisce quando la guerra finisce”.
Bisogna sforzarsi di immaginarli questi anni, fatti di mesi e giorni che passano uno dopo l’altro mentre prende forma un nuovo nemico, il silenzio.
Un silenzio che giorno dopo giorno cerca di zittire donne ostinate e disobbedienti.
Le istituzioni vogliono che dimentichino, le loro famiglie vogliono che dimentichino, i loro uomini vogliono dimenticare.
Le donne no.
Le donno vogliono giustizia, le donne vogliono parlare.
Perché nel dolore non detto la violenza si compie nuovamente, ogni giorno.
Come per Veronica, la ragazza che nel libro “Non lo faccio più” racconta lo stupro subito dai suoi amici dell’università.
La scorsa settimana Veronica mi ha chiamato, stavo guidando, di ritorno da un incontro in una scuola. Le ho detto che quando una ragazza aveva letto ad alta voce la sua storia in quella palestra affollata c’era un silenzio assoluto.
Le ho detto che negli occhi delle ragazze e dei ragazzi c’è la possibilità che le cose vadano diversamente.
Poi ho smesso di raccontare, chiedendole scusa se forse le stavo creando turbamento.
E Veronica mi ha risposto “Tutto questo che stai facendo sta dando un senso a quanto è successo.
E’ come se avessi fatto la pace col mondo”.
Ho sentito un brivido percorrermi il corpo, ho respirato il suo sollievo ma anche il suo dolore non detto, il suo silenzio, quel silenzio che per dieci anni ha cercato di soffocare qualcosa di non soffocabile.
Abbiamo parlato un po’, poi ci siamo salutate.
Mentre guidavo continuavo a sentirlo quel suo silenzio, assordante come il silenzio nel documentario, come quello che nelle nostre case sovrasta la rabbia e alimenta la rassegnazione.
E’ un silenzio uguale per tutte, che come una coltre impalpabile si appoggia sulle nostre vite, dentro e fuori le nostre case.
Si appoggia lieve, quasi protettivo, e invece lentamente ci attanaglia, diviene armatura e poi morsa che stringe.
E”’ il silenzio il nostro nemico.
Forse per questo Amnesty internationa ha organizzato un evento a Milano dove quel documentario e il mio libro, apparentemente lontani, hanno parlato insieme di violenza.
Break the chain, spezza le catene.
Danza, sollevati.
One billion rising è il corpo che balla, è il corpo che dice, che non sta zitto.
Anche a Sanremo hanno ballato, e ho apprezzato.
Peccato che non abbia ballato anche Fabio Fazio, peccato non abbiano ballato anche dei maschi.
La violenza non è solo “cosa di donne”, ma “anche”.
E’ un problema maschile irrisolto, che in quanto irrisolto diventa femminile.
E’ un problema “anche” femminile se le donne continuano a sentirsi sole, se le donne non escono a ballare tutte insieme, se non alzano la testa per sollevarsi.
Ha detto bene Luciana Littizzetto su quel palco: “Non abbiamo sette vite come i gatti, ne abbiao una!”
Dance, rise!
Ballare per risalire, per spezzare un silenzio divenuto insopportabile.
Io ho ballato a Milano, in Piazza Duomo.
Con me ho portato anche mio figlio, che ha 11 anni.
Per insegnarli che contro la violenza mettiamo in gioco il nostro corpo, insieme ad altri corpi, corpi di femmine e corpi di maschi.
Che siamo vivi e vive, che non stiamo zitte e nemmeno zitti, che la vita ci piace e la vogliamo ballare. Tutta.
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