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Rosa López Díaz ha 33 anni, è indigena di lingua tzotzil e proviene da una famiglia povera. Detenuta nel carcere messicano di San Cristóbal de las Casas, in Chiapas, con il suo secondo bambino, Leonardo, ha visto morire a 4 anni l’altro suo figlio, Natanael, nato con gravi danni cerebrali in seguito alle torture subite da lei al momento dell’arresto – avvenuto nel 2007 – mentre era incinta. Condannata a 27 anni e 6 mesi di reclusione (dopo uno sconto di pena di 17 giorni al processo d”appello) insieme a suo marito, Alfredo López Jiménez, al cugino di lui, Juan Collazo Jimenez, e a un loro amico, Jimenez Pedro Lopez, Rosa è stata accusata di un reato – un sequestro di persona – che non ha mai commesso ed è stata costretta a firmare una confessione in bianco sotto la minaccia della violenza dopo essere stata picchiata malgrado fosse incinta di 4 mesi.
Rosa è l’emblema di tutte le discriminazioni che un essere umano può subire: è donna, indigena, povera, detenuta e madre, e per questo più esposta perché ricattabile attraverso il figlio. Ma Rosa è anche il simbolo di tutte le mamme che sono costrette a crescere i propri figli in carcere dove i bambini rimangono, per lo più, fino a 5-6 anni: in Messico, Argentina, Bolivia, in Salvador, in Afghanistan, in Iran, in tutto il Medio Oriente, in Africa, e nel mondo intero, compresa l’Italia. Donne che, per la maggior parte, sono in carcere per motivi legati al disagio sociale e alla povertà ma anche per motivi politici o reati inesistenti. Rosa da un anno porta avanti la sua lotta per la libertà e per il riconoscimento dei diritti dei detenuti insieme alla sezione maschile del carcere N. 5 e al collettivo “Los solidarios de la Voz del Amate”, ma i funzionari governativi le fanno pressione perché abbandoni la lotta, e ora lei chiede aiuto al mondo.
“Il nostro obiettivo è esigere che si rispettino i diritti umani e che ci restituiscano la libertà che ci è stata tolta dal mal governo – spiega Rosa in una lettera che ci ha mandato la settimana scorsa – e lo sciopero della fame che abbiamo fatto a settembre ha avuto l’appoggio degli altri detenuti e la solidarietà di chi è fuori e lotta con noi. Nell’atto di resistenza io ero l’unica donna e ho ricevuto minacce da parte delle autorità, ma grazie alle denuncie che abbiamo fatto, alla fine hanno rispettato la mia protesta”. Rosa ora vuole far conoscere a tutti e a tutte la sua storia che, come quella di altri e altre, è una storia brutale di violazione dei diritti fondamentali e con questa lettera scritta dalle sue mani mentre sconta la pena nella cella della prigione di Cristobal, in Messico – dove ha imparato a leggere e a scrivere – lancia il suo appello al mondo raccontando la sua storia.
Questa è la storia di Rosa López Díaz, raccontata da lei stessa, in esclusiva per il manifesto.
“A 5 anni preparavo tortillas per tutta la famiglia, andavo al mulino di Nixtamal dove si tritano i chicchi di mais, bollivo i fagioli, pulivo la casa, lavavo i vestiti. Ero la più grande e accudivo i miei fratellini perchè mia madre vendeva tortillas al mercato e mio padre coltivava il campo. A 14 anni ho cominciato a lavorare in una casa come serva dove facevo i lavori domestici per 100 pesos al mese (6 euro, ndr) e in questo periodo conobbi Rafael che sposai dopo pochi mesi con il consenso dei miei genitori. Un matrimonio infelice, perché presto le botte e maltrattamenti diventarono all’ordine del giorno. Rimasta incinta a 17 anni, partorii 5 figli, uno dietro l’altro, sempre sotto la minaccia delle botte, e sopportai i tradimenti di mio marito, solo perché i nostri costumi e le nostre tradizioni ci dicono di sopportare l”uomo e tutte le umiliazioni fino a che uno dei due muore.
“Poi venne il giorno in cui lui se ne andò con un’altra donna, lasciandomi sola con 5 figli da crescere, e dentro di me ringraziai dio ma non dissi nulla. Durante la giornata facevo la domestica per 800 pesos al mese (50 euro, ndr), e di notte gli orli alle camicie per dar da mangiare ai figli. Poi arrivò Alfredo che vendeva vestiti al mercato. Ci siamo sposati dopo un po’ che ci frequentavamo ed ero davvero felice prima di cadere in questo incubo. Io e Alfredo nel 2007 siamo stati accusati di un sequestro che non abbiamo fatto e condannati per un reato che non abbiamo commesso. Il fatto è che il cugino di Alfredo, il giovane Juan Collazo Jimenez, e la figlia dello zio del mio ex marito, Claudia Estefani, si sono innamorati e sono scappati insieme senza il consenso dei genitori malgrado lei fosse minorenne, e per questa loro decisione io e mio marito siamo stati condannati a 27 anni e 6 mesi di carcere. Il padre della ragazza ci ha denunciati sapendo di mentire e alcune voci dicono che c’è stata anche una mazzetta di 40.000 pesos che è servita a farci arrestare senza troppe indagini, tant’è che per farci firmare una confessione in bianco ci hanno torturati.
“Quando ci hanno presi io ero incinta di 4 mesi ed ero con mio marito nel centro della città di San Cristobal seduti sulle panchine della piazza. Mentre mangiavamo cocco all”improvviso qualcuno ci ha gridato di sdraiarci a terra ma noi non pensavamo che fosse diretto a noi. Così i poliziotti ci colpirono alle spalle, noi cademmo a terra e cominciarono a perquisirci come fossimo delinquenti. Mio marito chiese la ragione di quell’azione e se avessero un mandato per fare quello che facevano, e uno di loro gli puntò la pistola alla tempia per farlo stare zitto. Ci alzarono e ci coprirono la faccia portandoci via su una camionetta. All”arrivo fecero scendere prima mio marito e poi mi portarono in un altro posto. Qui cominciarono a domandarmi: Dove la tenete sequestrata? Io non sapevo di chi stessero parlando e continuavo a rispondere: chi? Chi cercate? Poi, a un certo punto, cominciarono a darmi cazzotti.
“Mi colpirono allo stomaco e io li avvisai che ero incinta ma loro dissero che non importava e continuarono a colpirmi. Mi misero un pezzo di stoffa bagnata in bocca e una busta di plastica in testa e sentii che mi stavano asfissiando e in quei secondi sentii la morte. Non so per quanto tempo mi torturarono, sentivo solo dolori insopportabili dovuti alla gravidanza. Non potevo vedere la faccia di quelli che mi picchiavano perché ero bendata e legata. Mi dettero un calcio e caddi a terra, e mi presero per i capelli trascinandomi per 2 o 3 metri, e cominciarono a toccarmi in tutte le parti del corpo. Poi mi tolsero i pantaloni e le manette, mi bloccarono togliendomi la camicetta e lasciandomi completamente nuda. Non so quanti erano, sentii solo uno che diceva: Io sarò il primo. Pensai che mi avrebbero violentata e allora gridai: Vi prego, vi supplico per l”amor di Dio non mi violentate dirò quello che volete. Così accettai di essere colpevole di un delitto che non ho commesso.
“A quel punto uno di loro disse: Vedi com”è facile? se l”avessi detto prima non avresti passato tutto ciò. Dirai che avete sequestrato Claudia Estefani chiedendo un riscatto di 2 milioni di pesos. L”avete progettato tu e Alfredo. E poi mi chiesero: Sei pronta? E io risposi di sì perché avevo troppa paura. Allora arrivò una donna, che mi vestì e mi rimise le manette dicendomi: Cammina, stupida! Poi mi fecero sedere in una stanza dove registrarono la mia voce che diceva quello che loro mi itimavano di dire, e lì vidi le facce degli uomini che mi avevano picchiata e torturata: uno di loro era grasso e con occhiali. Dopo un po’ mi fecero delle foto e alcune persone eleganti mi fecero firmare dei fogli in bianco, più un foglio in cui non so cosa c’era scritto perché all’epoca non sapevo né leggere né scrivere. Qui una donna, indigena, analfabeta e povera non ha diritti e mi trattarono peggio che un animale. Fu spaventoso, terribile, e la paura di morire era forte perché mi dissero che se non mi dichiaravo colpevole mi avrebbero portata in un terreno abbandonato e mi avrebbero amazzata.
“Nel momento in cui entrai nella sezione femminile del carcere avevo paura perché ero incinta e dolente per tutte le botte prese. Lì trovai altre donne indigene che mi diedero una coperta, caffè, cibo. Altre vittime di ingiustizia che sapevano cosa mi avevano fatto. La cosa più brutta fu però quando Natanael venne al mondo perché aveva danni cerebrali, il volto deforme ed era paralizzato. Qui in carcere non c’erano cure e medicinali per lui e quando i miei genitori si presero cura di Natanael, il piccolo non poteva neanche piegare la testa per vedere il suo corpo e furono i medici che lo visitarono a dire che il bambino era nato malato per le torture che avevo ricevuto quando mi arrestarono. La vita di mio figlio è stata quella di un morto vivente che a 4 anni e 16 giorni è morto tra le braccia di mia madre. Un dolore molto grande, insopportabile.
“Dopo Natanael, durante uno degli incontri con mio marito, ho concepito Leonardo che sta con me e ci rimarrà fino alla metà del mese di luglio perché dopo andrà a vivere con i miei genitori. Mi duole stare senza di lui, non vederlo crescere, non vedere i suoi primi disegni, ma è troppo duro e difficile tenere un figlio in carcere: noi ci ammazziamo di lavoro fino all’alba per guadagnare qualcosa e comprare pannolini, vestiti e altre cose per i nostri piccoli perché nessuno qui ci dà niente. Quando le detenute partoriscono le portano all’ospedale ma dopo il parto ci riportano al penitenziario dove non c’è pediatra, non ci sono medicine nè per i bambini nè per noi, e ci portano all’ospedale solo quando vedono che qualcuno sta morendo. Il settore femminile dove viviamo lo puliamo noi una volta alla settimana, turnandoci il naso. I neonati vivono con noi in celle di 3 metri x 4 in cui ci sono alemno 6 donne e non c’è un luogo per i neonati perché ogni donna cura il figlio da sola e senza niente. Per il resto abbiamo un bagno in ogni cella e il pranzo che ci danno è lo stesso anche per i piccoli perché non ci sono cibi speciali per loro. Spesso abbiamo dolore di stomaco e mal di testa, o malattie tipo influenza ma anche salmonellosi.
“Qui in Chiapas e in Messico non c’è giustizia. Le autorità che si dicono competenti si dedicano solo a ledere i diritti umani, a inventare delitti contro persone innocenti, e come oggi lo hanno fatto con me, domani continueranno a farlo con altri e altre. Per questo chiedo umilmente alle organizzazioni internazionali che lavorano sui diritti umani e denunciano le ingiustizie nei confronti delle persone che non possono difendersi, di intervenire nella mia situazione affinchè nessun’altra donna sia vittima di ingiustizia. Quello che più desidero nella vita e quello che chiedo è ottenere la libertà per me e pèer gli altri ingiustamente condannati, per continuare a lottare per la società, conquistando altri cuori alla nostra causa. La forza me la dà mio figlio. Quando vedo il suo visetto innocente, mi viene una grande tristezza, ma dalla tristezza nasce il mio coraggio e la rabbia, grandi e degni come il mio dolore”.
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