‘Un”antica tradizione dell”Appennino toscoemiliano, tra Alpi Apuane, Garfagnana, Lunigiana, montagna pistoiese ed Emilia, voleva che la gente si recasse, di questi tempi, di casa in casa a “cantare la Befana”. Sorta di Maggio toscano anticipato, cantare la Befana è una pratica antica e socializzante, nel corso della quale ci si mascherava e si andava per le dimore altrui a chiedere cibo e vino intonando un tradizionale stornello, per poi finire ubriachi fradici ma contenti. A Montignoso, borgo del massese, l”usanza è sopravvissuta addirittura con l”arcaico nome di Pefana, quantunque inevitabilmente cristianizzata per mettere d”accordo un po” tutti.
Ma il cantare la Befana è davvero una barbara usanza di popoli montanari poi soppiantata dalla più rassicurante Epifania cristiana, nella quale il personaggio femminile della Befana, ormai tradizionalmente accanto ai più pii re magi ma con ogni evidenza mutuato dal paganesimo, assumerà le sembianze una sorta di giudice che dispensa premi ai buoni e punizioni ai cattivi? In realtà, decisamente no. Prima che il 6 gennaio diventasse la coda delle feste buoniste per eccellenza, quella che degnamente le conclude e se le porta via, la Befana non ancora cristianizzata né permeata della logica della colpa, era un simbolo di socializzazione: non di “do ut des”, non di “faccio il bravo e sarò premiato”. Si andava per le case non con lo spirito di discernere i buoni dai cattivi, ma di condividere il vino, ambrosia o feccia che fosse, in nome della solidarietà e senza scomodare entità superiori. Poi si tornava al proprio focolare arricchiti dal calore della condivisione in una usanza che ormai è scomparsa, ma il cui ricordo getta un”ombra di falsità a certe ipocrite feste cristiane, ormai diventate un trito inno alla superiorità del “buono” che svilisce ogni tentativo umano di rendere questo mondo, e non il prossimo, soltanto migliore.
Belinda Malaspina‘