Perché diciamo no a una Carta delle donne | Giulia
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Perché diciamo no a una Carta delle donne

Al lavoro la task force governativa contro la violenza. Allo studio un Codice di autoregolamentazione. Carte, Codici, Policy: ecco cosa ne pensa GiULiA. Di [Alessandra Mancuso]

Perché diciamo no a una Carta delle donne
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11 Novembre 2013 - 23.49


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Come modificare la rappresentazione della donna nei media, rispettandone la dignità, offrendone un’immagine non stereotipata, sessista o discriminatoria, e aderente alla realtà?
GiULiA è nata anche intorno a questa domanda e all’ipotesi che, per portare questa “rivoluzione”, occorresse modificare in profondità la cultura all’interno delle redazioni , dei luoghi in cui si produce la comunicazione, delle aziende.

Altrettanto consapevoli che fare questo, assicurare cioè la corretta rappresentazione dei generi, incide automaticamente sulla qualità della comunicazione e dell’informazione tout court.
Perché fare questo, significa dare una rappresentazione più aderente alla realtà nel suo insieme. E siamo forse l’unico soggetto, in questo momento, a portare avanti un’istanza così forte di innalzamento complessivo di qualità dell’offerta editoriale. In una categoria ripiegata dalla drammatica crisi del settore, che investe piccoli e grandi editori, e da una precarietà di lavoro sempre più estesa.

Abbiamo scartato l’idea di un Codice di autoregolamentazione delle giornaliste e dei giornalisti che, al pari della Carta di Treviso per la tutela ai minori, affrontasse la questione con prescrizioni, divieti, sanzioni.
Le donne non sono un soggetto debole da tutelare, abbiamo detto, e non è questa l’idea che vogliamo trasmettere all’interno della nostra categoria.
Riteniamo sia più efficace, e che produca risultati più duraturi, agire attraverso la formazione e con azioni di denuncia e sensibilizzazione, accompagnando il cambiamento dall’interno. Le donne non vogliono essere “tutelate” ma garantite nei loro diritti, anche con politiche di pari opportunità per aumentare la presenza di donne in ruoli decisionali ove si produce cultura e informazione.

Diverso approccio è contenuto nel “Codice di autoregolamentazione per le linee guida sulla corretta rappresentazione dei generi nel sistema dei media” presentato alle associazioni dal Sottogruppo Comunicazione, coordinato dal Ministero dello sviluppo economico (Mise), nell’ambito della Task force per la violenza contro le donne, presso il Dipartimento PO, che risale al precedente governo Monti per iniziativa della ministra Fornero.
Codice presentato ad associazioni impegnate su questo fronte, per acquisirne pareri, suggerimenti e proposte.

Se l’intento è apprezzabile, e se è apprezzabile che governo e istituzioni assumano la centralità di una questione per noi cruciale (è anche un nostro risultato), cercando di dare risposte, ancora una volta è sbagliato il metodo. Proprio non riusciamo a farlo capire.

Rigettiamo un’idea, in qualche modo autoritaria, che il “legislatore” reputi di avere le risposte, ancor prima di essersi confrontato sui problemi in esame, con chi (associazioni, gruppi e realtà portatori dell’ interesse collettivo che rileviamo) sulla materia ha maturato impegno, esperienza e competenza. La società civile va coinvolta e ascoltata, prima, a monte, soprattutto quando si tratta di definire Codici di autoregolamentazione che coinvolgono una molteplicità di soggetti, a partire dalle categorie interessate (autori, registi, giornalisti, pubblicitari, quant’altro) e dalle aziende, radiotelevisive e non.

Diverso, e benvenuto, il modello della “Carta per le pari opportunità e l’uguaglianza sul lavoro” firmata, aprile 2012, dalla ministra Fornero e la Federazione nazionale della stampa (FNSI), che chiaramente individua, tra l’altro, la necessità di “superare gli stereotipi di genere, attraverso adeguate politiche aziendali, formazione e sensibilizzazione, anche promuovendo i percorsi di carriera”.

Questo è il terreno sul quale crediamo sia importante agire. Declinando la Carta nel confronto aziendale, sindacale, contrattuale.

Ed è altrettanto apprezzabile, a questo riguardo, la Policy aziendale in materia di genere che la Rai ha adottato per iniziativa della presidente Anna Maria Tarantola. Attuando anche quanto previsto dall’art.49 del Codice delle Pari Opportunità per la concessionaria pubblica radiotelevisiva e i concessionari privati. La Rai è il primo servizio pubblico, in Europa, a dotarsi di una Policy in materia. E non era tenuto, visto che analoghe linee guida da osservare, per la Rai, sono già inserite nel Contratto di servizio 2013-2015, tra la concessionaria e lo Stato, che costituisce una buona cornice all’affermazione del principio della corretta rappresentazione di genere, oltretutto finalmente trasversale a tutto l’impianto degli obblighi di servizio previsti.

Avere adottato per iniziativa autonoma, con questa Policy, una Carta di indirizzi sul tema delle pari opportunità, del ruolo della donna e della sua rappresentazione, costituisce un benvenuto atto di garanzia in vista della partita grossa: il rinnovo della concessione del servizio pubblico che, dopo un ventennio, scadrà nel 2016. La Rai non solo come soggetto passivo di obblighi, ma attore che custodisce un bene pubblico e si impegna a garantire tra i suoi valori, il rispetto della dignità umana.

Carte e Policy sono un buon viatico. Ma ancora, solo, una cornice, all’interno delle quali operare, insieme, se non si vuole che rimangano solo lastricati di buoni propositi.

Quanto al “Codice di autoregolamentazione per le linee guida sulla corretta rappresentazione dei generi nel sistema dei media”, presentato al Mise, abbiamo rilevato, nel merito, l’inapplicabilità alla categoria professionale dei giornalisti, la cui autonomia e il cui autogoverno sono disciplinati dalla legge e ancorati nell’art.21 della Costituzione. Ma abbiamo rilevato anche la difficile assimilabilità di questo Codice con quello preso a modello di riferimento: Il “Codice di autoregolamentazione Tv e Minori” sottoscritto già dal 1997 da Rai, Mediaset, Frt, Aer. E abbiamo espresso forti dubbi sull’istituzione di un “Comitato Media e genere”, non a carattere meramente consultivo, ma con poteri sanzionatori e di censura, fino alla sospensione di programmi in presenza di violazioni del Codice. Poteri per altro dubbi, in assenza di un quadro normativo e di un sistema giuridico di disciplina del settore, e con scarsa chiarezza di rapporti con l’Autorità delle Comunicazioni (Agcom). Snoq Libere ha opportunamente avanzato anche perplessità sui presupposti di garanzia e indipendenza di un Comitato i cui finanziamenti sono a carico dei soggetti non istituzionali che nel Comitato siedono.

Davvero non ci sembra questa la via. E si dimostra, una volta di più, che il metodo incide sul risultato prodotto. Pensiamo, viceversa, come altre associazioni, che sia utile definire Linee Guida per tutti gli attori del sistema dei media, al fine di affermare principi quadro e indirizzare le azioni necessarie per un cambiamento effettivo. E che siano anche punto di riferimento per tutti i soggetti interessati ad affermare tali principi e farli rispettare.
Accettando un metodo di confronto, ascolto e partecipazione effettiva. Alla società civile si danno o per essa si ipotizzano, a volte, compiti impropri, fino a partecipare ai processi di nomina, mentre troppo spesso gli si nega di esercitare la funzione che gli è propria: partecipare alle scelte legislative e di governo con la possibilità di orientarle.

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