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Ancora si muore per le notizie

Daphne Caruana Galizia è solo l'ultima. Dopo Anna Politkovskaja e Ilaria Alpi. Eppure la democrazia cammina anche sulle gambe dell'informazione [di Silvia Garambois]

Ancora si muore per le notizie

Redazione Modifica articolo

20 Ottobre 2017 - 14.29


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Dafne è l’ultima. Solo l’ultima. E Malta è lì, a un braccio di mare. L’assassinio della giornalista che metteva sotto accusa la corruzione del suo governo – e gli evasori fiscali italiani – ha fatto gelare il sangue: Daphne Caruana Galizia, saltata in aria con la sua auto, trovata carbonizzata al volante. Nel cordoglio ufficiale.

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Come aveva fatto gelare il sangue l’assassinio a Mosca di Anna Politkovskaja, con il suo impegno per i diritti umani e la sua opposizione a Putin. Undici anni fa. E così per l’atroce morte di Anabel Flores Salazar, in Messico: rapita, torturata, uccisa e buttata seminuda su una strada. Poco più di un anno fa. Aveva avuto un bimbo da pochi giorni.

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E Ilaria Alpi. Una ferita che non si chiude, una verità che non c’è. Indagava su traffici d’armi e rifiuti ma da quel 20 marzo del 1994, il giorno dell’agguato a Mogadiscio, e nonostante le Commissioni d’inchiesta, nessun mandante solo depistaggi e bugie.

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Ci sono duemilatrecento storie così nel mondo, dal 1990 a oggi. Forse di più, i dati dell’Ifj – l’organizzazione internazionale dei giornalisti – invecchiano in fretta. Giornalisti uccisi perché fanno il proprio mestiere: raccontare quello che vedono. Giornalisti che non si accontentano delle verità ufficiali, perché informare significa “avvicinarsi alla verità”, quella sostanziale. Quella che brucia.

C’è una cosa che non è mai inutile ripetere: la democrazia cammina anche sulle gambe dell’informazione. Sulle inchieste dei giornalisti. Sui loro racconti. Sul loro punto di vista. Noi lo abbiamo addirittura scritto nella Costituzione, articolo 21.

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L’Onu ha dichiarato il 23 ottobre “Giornata mondiale per la fine dell’impunità dei crimini contro i giornalisti”, a Roma martedì prossimo ci sarà un presidio sotto l’ambasciata di Malta, una “scorta mediatica” perché anche la morte di Daphne non finisca tra i delitti senza colpevole o con colpevoli di comodo.

È quello che da qualche tempo i giornalisti fanno in Italia anche con i colleghi minacciati dalle mafie: cercare di non lasciarli soli. Troppi lutti a casa nostra, troppi morti senza mandanti: da Mauro De Mauro a Giovanni Spampinato, da Giuseppe Fava a Giancarlo Siani… Sono 28 i giornalisti italiani uccisi dalle mafie, dal terrorismo o da guerre lontane.

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I numeri, gli elenchi, rendono tutto freddo. Anche quelle 256 minacce a giornaliste e giornalisti che ci sono state nel nostro Paese dall’inizio dell’anno. Documentate.

Nomi e storie. Bombe carta. Scritte sulle scale di casa. Telefonate anonime. Pubblici manifesti…

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Con le giornaliste sono più cattivi: i social diventano palestra di insulti sessisti e volgari, parole di odio e di violenza. Nelle lettere anonime si cita la scuola dei figli. Cambiare città per continuare a fare il proprio lavoro: si campa male con la scorta, se hai famiglia è impossibile. Una professione, un mestieraccio: “Eppure volevo solo fare il giornalista”.

C’è un osservatorio, “Ossigeno per l’informazione”, che raccoglie tutte le storie di aggressioni e minacce a chi sta facendo il suo mestiere di informare, e che avverte: “Per ogni intimidazione documentata dall’Osservatorio almeno altre dieci restano ignote perché le vittime non hanno la forza di renderle pubbliche”.

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Anche Daphne, e solo pochi giorni fa, aveva denunciato di aver ricevuto minacce di morte. È finita tra le denunce. In mezzo a tante…

 

[Articolo pubblicato su strisciarossa]

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