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Quando la violenza contro una donna diventa caccia-social al video porno

Per le femministe dare un nome alla vittima umanizza la storia. Per i maschilisti è occasione d’odio. Un’inchiesta americana su due casi spagnoli. E in Italia… [di Paola Rizzi]

Quando la violenza contro una donna  diventa caccia-social al video porno
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7 Luglio 2019 - 14.08


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Come si deve parlare delle donne che hanno subito una violenza di genere sui mezzi di informazione?  Tutelare la privacy in modo blindato non comporta anche il rischio di comprimere la dignità della persona, relegandola al ruolo anonimo di “vittima” o a un numero in una statistica? E d’altra parte, raccontare la sua storia, pur con tutte le cautele che la deontologia impone, nel mondo digitale non la espone comunque al rischio della sovraesposizione moltiplicata dal rimbalzo esponenziale sui social network, nei motori di ricerche sessisti e nel vortice degli algoritmi  maschilisti?

Queste e altre domande se le pone la corrispondente dalla Spagna Meaghan Beatley sulla Columbia Journalism Review (qui l’articolo originale) , la rivista della facoltà di giornalismo della Columbia University, partendo da un’analisi di due vicende che hanno scosso la Spagna negli ultimi tempi, aprendo un dibattito sui media locali.

Beatley parte dal caso di una donna di Madrid che a maggio si è suicidata dopo che un suo video erotico è diventato virale sulle chat di whatsapp tra i suoi colleghi in una grossa azienda, 2.000 dipendenti, quasi tutti uomini.  All’inizio i giornali più autorevoli come El Pais hanno messo solo le iniziali. Mentre altri, compresi i giornali scandalistici britannici, raccontando la storia hanno pubblicato nome, città, luogo di lavoro. Tutto insomma. Quello che è seguito è stata la ricerca spasmodica del video online, anche e naturalmente sui siti porno. Interessante la sintesi di Barbijaputa, una nota editorialista femminista spagnola: «Una volta che il nome [di una vittima] è di pubblico dominio, il femminismo lo usa per umanizzare la donna. Ma il machismo trova sempre un modo per usarlo per i propri scopi, in questo caso, come un’altra parola chiave per cercare il suo video su canali porno».

 

Beatley cita anche  Pilar Alvarez, giornalista specializzata in tematiche di genere per El País, per la quale  i problemi di privacy non si risolvono  con l’occultamento del nome della donna. «Che il nome sia stato reso pubblico o meno, sarebbe stato lo stesso. Le ricerche sarebbero state fatte con altre parole chiave», dice. Molte ricerche del video sul web infatti sono state condotte solo con il nome del luogo di lavoro della donna e con la parola “impiegato”. «Questo non è solo un problema di giornalismo- dice Alvarez – questo è un problema educativo». Un caso che ricorda molto da vicino quello di Tiziana Cantone, la ragazza morta suicida nel 2016 per la diffusione online senza il suo consenso di un video intimo, che ha portato al disegno di legge sul revenge porn, tuttora in attesa dell’approvazione definitiva al Senato. Da notare che il video che ha portato alla morte la ragazza è stato rimosso si spera definitivamente solo poche settimane fa, giugno 2019, a tre anni dalle prime denunce.

 

In Italia un decalogo di regole generali per i giornalisti a cui sarebbe bene attenersi parlando di violenza di genere è stato stilato nel Manifesto di Venezia promosso anche da Giulia insieme a Cpo Fnsi, sindacato Giornalisti Veneto  e Usigrai. Ma la questione dell’identità è insidiosa e non esistono soluzioni semplici, come rileva Beatley ascoltando diverse campane coinvolte nel dibattito spagnolo: «Ana Bernal-Triviño, professore di giornalismo digitale presso l’Open University della Catalogna, difende l’uso di nomi e dettagli personali nelle notizie. “Le vittime di solito sono viste come semplici numeri, non come persone, quindi è importante [condividere] un nome, una storia, una vita, una famiglia, i bambini. Dobbiamo raccontare le storie delle vittime per ridar loro dignità, specialmente nei media, dove la colpevolizzazione della vittima abbonda”. Infatti, poco dopo la notizia del suicidio della donna un famoso torero, Fran Rivera, ha dichiarato in un programma televisivo locale: “Noi  uomini, e lo dico perché sono un uomo, non siamo in grado di vedere un video come questo e non condividerlo … Donne e ragazze, per favore non mandate questo tipo di video. “Il commento è diventato virale quasi quanto la notizia del suicidio».

 

Una posizione non condivisa da Graciela Atencio, una giornalista che dirige Feminicidio.net, database spagnolo sulla violenza di genere, che ricorda cosa è successo nel caso che nel 2016 ha fatto esplodere il #Metoo iberico: lo stupro di gruppo di una ragazza da parte di cinque uomini, declassificato poi in tribunale a semplice abuso. La protesta immediata e di massa della società civile spagnola ha portato ad una revisione del processo che a giugno 2019 ha portato a condanne più dure. Nel frattempo però la notizia che ci fossero i video della violenza realizzati dagli stupratori – e utilizzati dalla difesa per mostrare che la donna era consenziente, visto che era immobile e non si dimenava – ha avuto come conseguenza un boom di ricerche con la query “Wolf Pack” – un soprannome del gruppo dei cinque – sui siti porno, così come le ricerche per identificare la vittima, il cui nome non era stato reso noto. Identificazione alla fine riuscita per un errore nella versione pubblica della sentenza di condanna e che ha portato gruppi di fan degli aggressori a diffondere immagini della donna rubate dai profili social.

Insomma un successo virale, tutto a danno della ragazza. «Ho scritto del caso Wolf Pack per il Guardian – dice Beatley -Nella mia storia, mi preoccupavo di come umanizzare una donna conosciuta per la maggior parte del mondo come “la vittima”, mentre gli unici angoli di Internet che potevano dare un volto e un nome a lei lo facevano in modo così punitivo».

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