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Storia di uno stupro negato

Unbelievable (Incredibile), la miniserie in onda su Netflix, traduce in immagini un’inchiesta giornalistica che nel 2016 ha vinto il premio Pulitzer per il giornalismo investigativo. [Di Paola Rizzi]

Storia di uno stupro negato
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Paola Rizzi Modifica articolo

10 Novembre 2019 - 18.57


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Nel 2017 un’indagine sulla violenza di genere condotta dall’agenzia europea per i diritti fondamentali (fra.europa.eu) su un campione di 40mila donne ha messo in fila un paio di scomode verità: una donna europea su 20 afferma di essere stata violentata, ma la maggior parte, “most” nel testo, non ha denunciato l’aggressione. Secondo l’Istat, invece, in Italia un milione e 400 donne sono state vittime di stupro o di tentato stupro. Le denunce oscillano tra il 6 e il 12%.

Cambiamo continente: le statistiche dell’Fbi e del Dipartimento di Giustizia Usa raccolte dalla Rainn (Rape, Abuse & Incest National Network) raccontano che in media su 1000 violenze sessuali solo 230 sono denunciate alla polizia. Di queste solo 46 portano a un arresto e solo 4,6 arrestati vengono condannati.
 
Un’inchiesta per immagini
Perché le cose vanno così? Lo spiega in modo mirabile e agghiacciante la miniserie in onda su Netflix Unbelievable (Incredibile),  che traduce in immagini un’inchiesta giornalistica pubblicata da ProPublica che nel 2016 ha vinto il premio Pulitzer per il giornalismo investigativo. Gli autori T.Christian Miller e Ken Armstrong nell’inchiesta An unbelievable story of rape (Un’incredibile storia di stupro) ricostruiscono una serie di casi di stupro verificatisi tra il 2008 e il 2010 tra il Colorado e lo Stato di Washington.

Il centro dell’attenzione è su quell’unbelievable: una ragazza di 18 anni che denuncia uno stupro a Lynnwood, vicino a Seattle, non viene creduta dai poliziotti al punto da convincerla a ritrattare e a farla condannare per falsa testimonianza «perché ha fatto perdere tempo alla polizia».

Marie, questo il nome vero della vittima nella realtà e nella fiction, alla fine troverà il suo riscatto grazie al lavoro di due detective donne a migliaia di chilometri di distanza, in Colorado,  Stacy Galbraith e Edna Hendershot, che con ben altra professionalità e sensibilità interrogano le vittime di stupri con caratteristiche simili, trovano delle connessioni e si mettono sulle tracce di un unico colpevole, un ex militare che verrà riconosciuto responsabile di 28 stupri e sarà condannato nel 2011, secondo l’uso americano del fine pena mai, a 372 anni e mezzo di carcere.

Tra i trofei delle sue vittime il criminale conserva anche indumenti e foto delle violenze, compresa quella di Marie, che così due anni dopo la sua condanna per falsa testimonianza riuscirà ad ottenere giustizia, un cospicuo risarcimento dallo stato e le scuse imbarazzate di uno dei poliziotti.

I pregiudizi che condannano
La serie, scritta e diretta da Susannah Grant, la sceneggiatrice di Erin Broncovich, seguendo puntualmente l’inchiesta di Miller e Armstrong si concentra soprattutto sulle falle del sistema e sui pregiudizi che hanno prodotto quella che chiamiamo tecnicamente vittimizzazione secondaria da parte di diversi soggetti: forze di polizia, sistema penale, assistenti sociali, media.

Marie è una drop out che ha vissuto violenze fin da bambina, tolta ai genitori che la maltrattavano e passata attraverso decine tra famiglie affidatarie e istituti, riuscendo nonostante tutto a restare in piedi, a non perdersi. Nel momento in cui cerca una sua autonomia e vive in un cohousing assistito, dove risiedono altri ragazzi con problemi simili ai suoi,  avviene lo stupro, del  quale, diversamente al voyerismo tipico delle serie crime, viene mostrato pochissimo.

La parte più dura, pornografica, è seguire Marie, sotto shock, che nel giro di 24 ore dallo stupro, viene di nuovo spogliata e fotografata più volte dai medici, poi, completamente da sola, costretta a ripetere infinite volte quello che le è successo a poliziotti maschi che la interrogano senza nessuna empatia. Il contrario di quello che viene mostrato accadere ad un’altra vittima, di cui “si prende cura” la detective Edna Galbraith (nella fiction Karen Duvall) lasciandola parlare senza incalzarla, in un luogo appartato e sicuro. A Marie invece bastano piccole esitazioni per portare gli agenti ad avere un atteggiamento inquisitorio, mentre lei si chiude sempre di più.

I dati di ProPublica
Abituata a non poter contare sugli altri e soprattutto sugli adulti, la ragazza alza un muro che viene preso a pretesto per mettere in dubbio la sua credibilità. La sua vita emarginata si trasforma in uno stigma che condiziona lo sviluppo dell’indagine. Finiamo qui lo spoiler. Torniamo alla realtà: i dati raccolti nell’inchiesta di ProPublica mostrano che a Lynnwood tra il 2008 e il 2012 per il dipartimento di polizia il 21,3 per cento dei casi di stupro denunciati erano stati ritenuti “infondati”, cinque volte la media nazionale del 4,3 per cento. Dopo il caso di Marie, il dipartimento ha introdotto delle modifiche per migliorare il modo in cui vengono trattate le vittime di violenza. Marie, che ha collaborato alla fiction,  l’ha giudicata eccellente. La sua vita ha preso un’altra piega, fa la camionista, è sposata ed ha un figlio. I poliziotti che l’hanno costretta a ritrattare non hanno avuto nessuna punizione.

 Più che una fiction, una docu-fiction da guardare per riflettere sulle falle del rapporto tra la giustizia penale e la violenza di genere. Molti passi avanti anche in Italia sono stati fatti, moltissimo resta da fare,  se accade ancora che la Cassazione debba intervenire, come avvenuto quest’anno, per annullare una sentenza che aveva assolto due stupratori perché la vittima era ritenuta troppo brutta, quindi “non stuprabile”. L’altro aspetto su cui riflettere è che il giornalismo, se è buon giornalismo, è ancora un potente agente di cambiamento.

 

 

 

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