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Le magistrate alzano la voce

Le giudici sono il 53,8% della categoria, ma nelle nomine ci si scorda di loro: appello al Capo dello Stato, è "una questione morale", "una gestione arrogante del potere". [Di Luisella Seveso]

Le magistrate alzano la voce
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Luisella Seveso Modifica articolo

3 Giugno 2020 - 16.40


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Anche le magistrate alzano la voce, contro l’assenza di donne nei ruoli apicali della Magistratura , contro un asfissiante soffitto di cristallo che le relega a ruoli secondari, contro il pesante maschilismo che ancora vige nella categoria, sempre più intollerabile e avulso dalla realtà.

In un periodo di rivendicazioni e proteste per la disattenzione della politica e delle istituzioni ai diritti delle donne, non passa inosservata la lettera aperta, indirizzata il 30 maggio scorso, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dalle socie dell’Admi, Associazione Donne Magistrato Italiane. Le magistrate  si rivolgono, e non è la prima volta, alle cariche dello Stato,  rivendicando i riconoscimenti, il ruolo e i diritti di parità di genere ancora negati, a 57 anni dall’ingresso delle donne in Magistratura, quando ormai le giudici rappresentano il 53,8 % del totale dei magistrati in attività.

Il documento, firmato dalla presidente Carla Marina Lendaro, usa un tono asciutto e muove accuse molto dirette, a cominciare dalla gravità nella condotta di alcuni componenti dell’Organo di Autogoverno della Magistratura, che ha gettato discredito su tutta la categoria. Una grave questione morale che è frutto, scrivono dall’Admi, di una “gestione arrogante del potere in base a canoni di spregiudicata autoreferenzialità”, e che richiede una urgente risposta  e riforme indilazionabili.

In quadro che emerge  dalla missiva è sconfortante: l’associazione sottolinea come anche nel linguaggio il sistema di potere insediatosi al Csm abbia mostrato la scarsissima considerazione riservata alle donne,  “da piazzare o da escludere”, come pedine insignificanti di un gioco tutto al maschile, “caparbiamente blind gender”.

Urge quindi un cambiamento, e lo si chiede con forza,  nelle regole in primis, che non consentono una adeguata rappresentanza di genere nelle più alte gerarchie della categoria.  L’Admi, raramente se non mai interpellata in sede di discussione e decisione sulle regole, già in questi anni aveva avanzato proposte come la richiesta dell’inserimento della doppia preferenza di genere obbligatoria nella legge elettorale del CSM. La proposta non è mai stata approvata. E ha manifestato nel 2006 prima, e nel 2015 poi in sede di revisione, il suo fermo dissenso all’introduzione nel nuovo Testo Unico sulla dirigenza ,di un cursus honoris non legato all’attività di lavoro giudiziario, ma a titoli acquisiti all’esterno, titoli che le magistrate, come tutte le donne lavoratrici impegnate anche nell’attività di cura familiare, non hanno tempo e modo di conquistare. 

Ma neppure la riforma del CSM che si profila all’orizzonte appare tranquillizzante: dall’ipotesi,  definita  dall’Admi “evidentemente incostituzionale,” di un sorteggio  per l’elezione dei membri, alla ennesima occasione mancata per inserire la doppia preferenza di genere obbligatoria anche nel secondo turno elettorale, quello per la designazione degli eletti. Anche in questa occasione non si parla ovviamente dell’introduzione di norme che garantiscano la presenza di almeno un 40% di rappresentanza femminile nell’Organo di Autogoverno per tre consiliature.

Al presidente Mattarella si appellano quindi le magistrate.  Perché non sia adottato ancora una volta “un sistema elettorale contro e non per la Magistratura.” E perché non sia ancora negata, nell’ amministrazione della giustizia, la rappresentanza democratica dovuta alle donne.

 

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