Parigi in rosa racconta la lunga marcia delle donne ma non evita le polemiche | Giulia
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Parigi in rosa racconta la lunga marcia delle donne ma non evita le polemiche

Il tributo alle donne alle Olimpiadi parigine si legge nei colori, nei simboli, nei nomi del villaggio olimpico che fanno da sfondo a medaglie e polemiche.

Parigi in rosa racconta la lunga marcia delle donne ma non evita le polemiche
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Caterina Caparello e Elena Miglietti Modifica articolo

2 Agosto 2024 - 22.14


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Era il 21 ottobre del 2023 quando la Parigi olimpica svelava la sua identità: la medaglia d’oro, simbolo eterno di vittoria, la fiamma olimpica, che unisce le persone attraverso lo sport e Marianne, emblema nazionale francese e dei valori repubblicani di eguaglianza, libertà e fraternità. Così il comunicato del Comitato alla presentazione del logo: «Finalmente, Marianne.  Con i suoi tratti femminili, l’emblema di Parigi 2024 rende omaggio a una donna che è un simbolo nazionale francese conosciuto in tutto il mondo. Incarna lo spirito rivoluzionario che infonde i Giochi Olimpici e Paralimpici di Parigi.  Incapsula il desiderio di portare le competizioni fuori dallo stadio e nel cuore della città.  Una figura familiare che è ovunque nella vita quotidiana dei francesi, inoltre ricorda che questi Giochi saranno Giochi per tutti, Giochi che apparterranno alla gente.  Il suo viso è anche un omaggio alle atlete e un cenno alla storia, come è stato nel 1900 ai Giochi Olimpici di Parigi che le donne hanno avuto il permesso di competere»

E proprio Marianne osserva tutti da ogni gadget, pagina di giornale, indicazione stradale in questa Parigi colorata in toni pastello che si spingono fin dentro i luoghi delle gare. Un dettaglio visivo inaspettato: anche la pista di atletica dello Stade de France, anziché il classico arancione-mattone, sfoggia una gamma di colori che vanno dal lavanda al porpora, con dettagli in grigio. E poi il rosa, rosa ovunque, dai cartelli stradali ai guardrail in calcestruzzo, dalle divise dei volontari ai sedili del metrò, dal tatami alla pedana della scherma. Rosa è l’area del villaggio olimpico riservata ai media: per le sue strade sono stati scelti solo nomi di personalità femminili locali o nazionali. L’avvocata Gisele Halimi, la cantante e combattente della resistenza Josephine Baker, prima donna nera entrata al Pantheon, sono omaggiate con una via, un sentiero, uno spazio di incontro e, con loro, donne con una notorietà più locale, come Caroline Aigle, la prima francese a diventare pilota di caccia nel 1999. I loro nomi sono stati scelti in base a una consultazione su internet l’anno scorso, una buona opportunità per aumentare la presenza di nomi femminili nello spazio pubblico cui, a fatica, si sta cercando di dare forma anche in Italia.

Insomma, questa virata femminista dell’edizione 2024 dei Giochi era attesa per enfatizzare l’edizione che, per prima, raggiunge la parità fra atlete e atleti. Un percorso faticoso, in cui il CIO ha anche una direttrice della parità di genere, Marie Sallois che recentemente ha ricordato come l’edizione di Londra sia stata la prima in cui le donne potevano partecipare a tutti gli sport: era il 2012.

DA OLIMPIA A PARIGI. LA LENTA MARCIA DELLE DONNE AI GIOCHI

Lo sport non è una cosa per donne. Almeno questo è il pensiero diffuso dal 776 a.C. È da allora che le donne vogliono partecipare ai Giochi Olimpici. Come Callipetra che si travestì per assistere alle gare del figlio e fu scoperta, tanto da far istituire l’obbligo per il pubblico di spogliarsi perché non ci fossero dubbi, o Cinisca di Sparta che aggirò il regolamento che non vietava la presenza di allenatrici, vinse la sua gara per entrare nella storia. E ancora Stamàta Revithi che, ad Atene nel 1896, corse la maratona, ma il giorno dopo: il prete non la volle benedire, l’organizzazione cercò cavilli e la sua corsa fu addirittura fermata dall’esercito. Non le è mai stato riconosciuto il suo cimento e, beffa delle beffe, sulla sua pagina Wikipedia troneggia la fotografia di Pierre de Coubertin. Proprio lui che, fin da subito, si oppose alla presenza delle donne, in quanto convinto, come molte persone della sua epoca, che influisse sul livello di fertilità della donna.

Chissà cosa direbbe oggi di Nada Hafez, sciabolatrice egiziana, che ha passato il primo turno del torneo incinta di sette mesi o della conquista di avere, prima volta nella storia dei giochi, stanze dedicate alle atlete madri per allattare al seno grazie alla judoka Clarisse Agbegnenou.

LE POLEMICHE

Infine, due aspetti molto discussi in questi primi giorni parigini. La decisione della TV della Repubblica islamica di censurare le immagini delle atlete ai Giochi coprendo braccia, cosce, pance con strisce nere, che riflette una visione distorta e sessista del corpo femminile. Il gesto atletico viene mortificato insieme al corpo, insieme spariscono in un oblio che fa male e ne fa ancora di più se si pensa alla fatica vissuta da ogni parte del mondo per tenere il punto sulla questione. Un plauso a Eurosport che licenzia in tronco un proprio commentatore per una battuta sessista.

E mentre si discute di regolamenti sulle riprese televisive che non devono indugiare troppo a lungo su alcune parti del corpo delle atlete (per gli atleti il problema non si pone), a Parigi scoppia la bagarre Angela Carini e Imane Khelif di cui tutti hanno detto fin troppo. Ma una precisazione è d’obbligo: la pugile algerina è nata donna, tutto il resto sono disquisizioni che afferiscono alla sfera scientifica e ai regolamenti delle discipline sportive di Federazione e CIO e, di certo, non dovrebbero essere oggetto di attenzione della politica. Volta, troppo spesso, a gettare fumo negli occhi. Anche in questo caso i giochi di Parigi rappresentano un passo avanti grazie alla rinuncia ai tradizionali pittogrammi che storicamente raffigurano le discipline. La scelta è stata quella di eliminare la figura antropomorfa (riconducibile a un corpo maschile) rappresentata nell’azione di tirare con l’arco, pedalare, nuotare, eccetera. Al suo posto lo strumento distintivo di ogni sport: la freccia, la palla, il giavellotto… e poco importa chi sia a tirarli.

ORO E ARGENTO CHE RISCATTANO UNA FINALE

In mezzo alla questione pugilistica, però, arrivano medaglie che brillano. Come Alice Bellandi che, da numero uno del ranking di judo (categoria -78kg) e con la bocca sanguinante della lotta, mette al collo l’oro. Un oro che, come dichiarerà dopo la vittoria, «è pieno di amore». Amore per se stessa, per il suo sport e per la compagna Jasmine. Un amore per il trionfo, corredato da sacrifici, che ha commosso un intero stadio. Ma è amore anche quello provato da Silvana Maria Stanco. Lei, che nel tiro a volo ha dato anima e corpo. Lei, che ha ottenuto l’argento, una medaglia che non arrivava dal 2012 (con Jessica Rossi a Londra, oro). Lei, che a 15 anni ha impugnato il fucile prima come destrimane e poi da mancina. Perché nulla è impossibile. Una delle medaglie che ha brillato di riflesso, grazie alle sue vincitrici. Vincitrici che si sono riscattate, che hanno sfiorato un’altra impresa ma che comunque la storia l’hanno scritta. Arianna Errigo, Francesca Palumbo, Alice Volpi e Martina Favaretto. Argento contro le fiorettiste statunitensi. Un argento che, in realtà, vale e pesa come un oro. Una vittoria individuale mancata per queste atlete ma che, insieme, l’hanno ottenuta. Perché insieme si è più forti, si cade ma ci si rialza. Insieme. Infine, da lontano, si inizia a vedere qualcosa che brilla. Non sappiamo ancora se sarà oro o argento, ma di sicuro le dita di Jasmine Paolini e Sara Errani la toccheranno. Le due tenniste che hanno riportato dopo 100 anni l’Italia sul gradino finale. Non accadeva dal 1924, con Uberto de Morpurgo, bronzo a Parigi. Loro lo hanno fatto nel doppio. Ed è già record.

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