Un principio androcentrico ha regolato per secoli ogni lingua e per secoli l’uomo è stato il parametro intorno a cui si è organizzato l’universo linguistico. Soltanto in tempi recenti si è cominciato, nei paesi più evoluti, a porre il problema di un adeguamento del lessico e del linguaggio della comunicazione alla posizione della donna nella società. E’ un problema di mentalità e di cultura.
Da sempre nelle scritture giornalistiche e anche scolastiche e di studio si sono usate senza incertezze espressioni come “Gli uomini della preistoria”, “La storia dell’uomo”, “L’uomo è misura di tutte le cose”. Nel 1948 perfino l’Assemblea generale delle Nazioni Unite proclamò una “dichiarazione dei diritti dell’uomo”. Nel termine “uomo” veniva compreso l’essere umano donna, senza rendersi conto di una illogicità e di una scorrettezza politica che oggi è per fortuna divenuta evidente.
Fino a metà del secolo scorso Stati e Chiese hanno riservato alla donna il compito esclusivo di essere sposa e madre. Le professioni più qualificate le erano escluse e questo spiega perché le posizioni che erano riservate all’uomo hanno creato termini solamente di genere maschile (come “dottore”, “medico”, “chirurgo”, “giudice”, “sindaco”, “assessore”). Con l’ingresso della donna in alcune professioni certe potenzialità grammaticali hanno aiutato, nel passato, la soluzione del problema: col suffisso “essa” (“professoressa”, “dottoressa”), col facile femminile della parola che è un participio passato (come “deputata”) o delle parole col finale “era” (“infermiera”, “consigliera”, “bersagliera”). Mai si è avuta la forza di creare parole nuove. Perché non farlo oggi, oltre ad adottare soluzioni antiche?
Insieme al conservatorismo di molti che operano nell’informazione scritta e parlata, oggi la soluzione è resa tuttavia difficile da alcune donne di carriera e di potere che preferiscono la qualifica al maschile, come se la legittima parità rispetto all’uomo dovesse essere ratificata dalla parallela conquista del suo titolo al maschile.
Susanna Agnelli voleva essere chiamata (quando lo era) senatore (ma l’Ansa la chiamava “senatrice”, anche per non fare confusione col suo nonno senatore). Nel primo anno di presidenza della Camera Nilde Jotti si diceva “il presidente” (ma accettò poi l’uso dell’Ansa, che la chiamava “la presidente”). All’articolo maschile (“il presidente”) tornò Irene Pivetti (e l’Ansa non fece niente per convincerla; era cambiato il suo direttore). Nel giornalismo molte direttrici di quotidiano si mostrano fiere di essere chiamate “direttore” e anche molte inviate di essere chiamate “inviato”. Anche Susanna Camusso si fa chiamare “segretario generale”, nonostante che per anni abbia combattuto il maschilismo di certi operai.
La convinzione che l’adozione al maschile di una qualifica professionale sia una conquista femminista è un errore che sorprende. Significa infatti l’opposto; significa ritenere che una collocazione professionale sia importante solo se qualificata al maschile; che essere “ministro” dà autorità e non lo dà essere “ministra”. Un inconscio paradossale rigurgito di maschilismo da parte femminista.
Altra sorpresa è che il problema sembra essere soltanto italiano. In francese si dice “la ministre”, così come “la secrétaire générale”, “la présidente”, l’”envoyée extraordinaire”, “la directrice”, “la secrétaire générale”, “la juge”, “la conseillère”.
In tedesco la donna ministro è “Ministerin”, cioè “ministra”, come una donna cancelliere (Angela Merkel) è “Kanzlerin”, cioè “cancelliera” (con l’iniziale maiuscola come per tutti i nomi comuni in tedesco).
In spagnolo la donna ministro è « ministra » e se presidente è una donna, al posto di “presidente” (che, come in italiano, è maschile e femminile) è stato inventato un termine nuovo, proprio per far capire il genere femminile: “presidenta” ; e lo ha stabilito la Reale Accademia spagnola della lingua, fondata nel Settecento sul modello dell’italiana Accademia della Crusca.
In inglese il problema non esiste : “the minister” è eguale per ministro e ministra ; come “mayor” (sindaco), “phisician” (medico), “chancellor” (cancelliere) e così via. Anche “journalist”; e se si deve far capire, per esempio, che “journalist” è una donna si dice “woman journalist” (donna giornalista) ; oppure si fa finta di niente e subito dopo si trova il modo di dire “she” (essa).
Il problema della qualifica femminile delle professioni in italiano ha soluzioni più facili e soluzioni meno facili.
Nel caso di espressioni maschiliste storicamente accreditate si tratta di trovare parole diverse o un diverso gioco di parole. Qualche esempio: invece di “L’uomo è misura di tutte le cose” si dica “L’individuo…”; invece di “L’uomo della preistoria…” si dica “L’uomo e la donna della preistoria…”; invece di “La storia dell’uomo…” si dica “La storia dell’umanità…”; invece di “a misura d’uomo” si dica “a misura umana”.
I casi che càpitano più spesso per le cariche e le professioni sono quelli dei nomi che hanno la stessa forma al maschile e al femminile; si tratta solo di cambiare l’articolo: “il presidente”, “la presidente”; “il preside”, “la preside”; “il parlamentare”, “la parlamentare”; “il vigile”, “la vigile”.
Il problema è facilmente risolubile anche con i nomi che hanno una regolare forma femminile: “senatore” e “senatrice”, “amministratore” e “amministratrice”, “direttore” e “direttrice”, “redattore” e “redattrice”; analogamente per “consigliere” e “consigliera” e, come in tutti i participi passati, per “deputato” e “deputata”.
Più difficili sono i casi in cui il nome maschile non ha in uso corrente, fino ad oggi, la forma femminile: “architetta”, “medica”, “chirurga”, “ingegnera” (ma esiste” “infermiera”), “sindaca” (ma esiste “monaca”) e soprattutto “ministra”. Si abbia un po’ di coraggio e si scriva come suggeriscono i linguisti e anche l’Accademia della Crusca.
Da escludere sono i femminili costruiti, inutilmente, con il suffisso -essa (“avvocatessa”, “soldatessa”, “vigilessa”), un suffisso che ha una vaga valenza negativa, salvo i casi già entrati da tempo nell’uso comune (“professoressa”, “dottoressa”, “poetessa”, “studentessa”, “sacerdotessa”).
A favore di “architetta”, “avvocata”, “assessora”, “cancelliera”, “carabiniera”, “consigliera”, “ingegnera”, “magistrata”, “medica”, “ministra”, “notaia”, “pretrice”, “prefetta”, “questrice”, “sindaca” si espresse nel 1986 la “Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna” istituita dal governo presieduto da Bettino Craxi. Il documento, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, Direzione generale delle informazioni, dell’editoria e della proprietà letteraria, raccomandava anche di “evitare di usare il maschile di nomi di mestieri, professioni, cariche per segnalare posizioni di prestigio quando il femminile esiste ed è regolarmente usate sia pure per lavori gerarchicamente inferiori”; bene, quindi, per “amministratrice delegata”, “direttrice”, “sottosegretaria”, “segretaria”, “segretaria generale”,“inviata speciale”, “consigliera comunale”, “ambasciatrice”, “ispettrice” , “procuratrice legale”.
Non ha senso l’uso di “soldatessa” al posto di “soldata”. Il femminile di “soldato”, che è il participio passato di “(as)soldare”, è “soldata”, come “deputata” è il femminile di “deputato”.
A chi trova imbarazzo a usare « ministra » per la donna che è a capo di un ministero giova ricordare che « ministra » è parola antica, che si trova in scrittori come Annibal Caro, Torquato Tasso, Vincenzo Monti, sia pure con significato diverso; e anche in Giosuè Carducci.
La diffusa convinzione che l’uso, per le donne in carriera o in posizioni istituzionali, della qualifica professionale al maschile sia un rispetto del cosiddetto “politically correct” ha portato, in campo giornalistico, a casi di grande comicità. C’è chi ha scritto “la signora ministro”; chi “la segretario » e chi « un’assessore », cioè con l’articolo seguito dall’apostrofo davanti a un « assessore » fatto diventare femminile. Divertente è anche la qualifica di « quarto uomo », che, nel recente campionato europeo femminile di calcio, è rimasta invariata anche se il compito era assegnato a una donna.
Un invito a un uso non sessista della lingua è stato fatto dall’Unesco in un documento pubblicato nel 1994, in applicazione dei deliberati della venticinquesima e ventiseiesima sessione della Conferenza generale. Il documento, in francese e in inglese, “vuole aiutare a prendere coscienza che certe forme di linguaggio possono essere sentite come discriminatorie per le donne, “perché tendono a nascondere la loro presenza o a farla apparire come eccezionale”. Il documento propone delle soluzioni alternative; qualche esempio per l’inglese (proposte già largamente adottate negli Stati Uniti): “chairperson” o “president” invece di “chairman”; “photographer” o “camera operator” invece di “cameraman”, “police officer” invece di “policeman”.