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Donne-oggetto di attenzioni spericolate

Per la Tv italiana le donne sono solo pezzi di carne: ma basta dire che non ci rappresenta? E noi della comunicazione ci sentiamo responsabili? [Licia Conte]

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25 Novembre 2011 - 22.13


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Che l’immagine femminile veicolata dai media non ci corrisponda, non c’è più bisogno di dirlo. Con il suo video la Zanardo ha dato una risposta inappellabile, rendendo senso comune quel che prima era denuncia inascoltata di poche, ritenute retrò.

La donna, oggetto di cura fino alla metà dei 70 da parte del nascente sistema delle moderne comunicazioni di massa, fu per breve tempo anche soggetto della comunicazione nella stagione del femminismo.
Una parentesi che si richiuse subito: appena le strade e le piazze si svuotarono dei cortei irridenti e colorati delle donne.

Lei, la donna, tornò oggetto. Oggetto, non più di cure paternalistico-affettuose, bensì di attenzioni spericolate. Fu la cronaca ad effetto del dopo Vermicino a esercitare una forte attrattiva sulla comunicazione, soprattutto quella colta, impegnata a tradurre in linguaggi televisivi, e molto “creativi”, i fatti man mano che venivano all’attenzione della stampa. Insomma: i “fattacci”.

E siccome la donna –si sa- è la regina della cronaca, fu lei la protagonista principale di una stagione, cominciata negli 80 e ancora in corso. Del resto, si chiamasse secoli fa Montesi o ieri Franzoni o si chiami oggi Amanda: è lei, sempre lei, ad attirare gli sguardi più morbosi, quelli che fanno “vendere”.
La donna divenne, lo è tottora, protagonista delle aule di giustizia: irresistibile per i media soprattutto se autrice, supposta o reale, di misfatti. Vite squarciate, sezionate, analizzate in comodi studi televisivi da “esperti”. In ogni caso, vite oggetto di riflessioni, analisi, racconto altrui.
Dalla Tv della realtà (fu chiamata così) si passò in seguito al reality: giunsero sugli schermi cubiste, veline e, ahimè anche velone. Adolescenti, giovani, attempate: tutte lì ad esibire se stesse, o i propri sentimenti a casa De Filippi, nella speranza di strappare un momento di notorietà, coltivando l’illusione di trovarci qualcosa di sé, una specie di identità, che invece, insensibilmente e giorno dopo giorno, veniva letteralmente fatta a pezzi: “pezzi di carne”. Per la Tv italiana le donne sono solo “pezzi di carne”: questo il giudizio, espresso in modo per così dire “naturale” da una ragazza francese nel corso di un dibattito in un teatro romano.

Il 13 febbraio abbiamo finalmente detto: tutto ciò lede la nostra dignità, non ci rappresenta.

Ma basta dire: non ci rappresenta? Possiamo anche dire che non ci riguarda? Noi donne della comunicazione come facciamo a dire che non lo abbiamo permesso? Che non ce ne riteniamo responsabili?

Dove si annida la nostra complicità? Che cosa abbiamo pensato davanti ai “pezzi di carne” esibiti? Che era esercizio di libertà?

E ancora: da quegli schermi ne usciamo a pezzi solo noi? Che società viene raccontata da una Tv irresponsabilmente lasciata del tutto in mano altrui?
Che vogliamo fare del mondo della comunicazione? Vogliamo che resti così com’è purché si aggiunga qualche posto a tavola?

O vogliamo rivendicare dignità per la nostra immagine e per noi stesse decidendo di voler fabbricare il messaggio televisivo? Per riportare nella Tv quel che la Tv ha tolto alle donne: il racconto della vita, la trasmissione del senso comune alle generazioni future. Per tornare a essere l’occhio che guarda, la voce che racconta una propria visione di sé e della società.
Per dire quanto diverse sono fra loro le donne e quanto ricca è l’esperienza di ciascuna e di tutte. Per dire che benché diverse l’una dall’altra un tratto comune forse c’è fra le donne: l’attitudine a tenere insieme i mille fili di cui è fatta la vita di ogni giorno. L’attitudine a garantire il tessuto della vita sociale.

Per dire che anche la società è più ricca di quanto la Tv mostri, perché al di là della scatola magica c’è un mondo che fa fatica a stare nel salotto di Vespa o di Maria De Filippi o in qualsiasi altro talk show. C’è una società, che continua a produrre certo anche malavita, degrado, cinismo, aspirazione a facili carriere, ma capace anche di generare eroi della lotta alla mafia, giornaliste e giornalisti coraggiosi, volontari generosi e angeli del fango. Una società che vuole essere narrata di più e in modo meno episodico.
Ma come si fa a dire la bellezza della vita con tutti i suoi colori se il nostro vangelo professionale ci suggerisce con logica stringente, e al tempo stesso asfittica, che c’è notizia solo si è in presenza di un fatto traumatico.

Com’è la storia? Fa notizia l’uomo che morde il cane, non il cane che morde l’uomo. Ma è così?

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