Qualche settimana fa è scoppiata una polemica di cui non mi ero accorta e che ha protagonisti i graziosi mini short che spopolano anche quest’estate. Ne sono venuta a conoscenza soltanto martedì sera quando, dopo una riunione di Nuovi Argomenti, l’autore dell’articolo sul Secolo XIX, Marco Cubeddu, che è precario vigile del fuoco nonché autore del bel “Con una bomba a mano sul cuore” pubblicato in primavera da Mondadori, ne ha iniziato a parlare in virtù della polemica che ne è scaturita.
In diretta ho letto l’articolo che non va molto oltre il provocatorio titolo – ovvero: “Ragazze in shorts, vi siete viste?” – e più che rimanere colpita dal pezzo in sé, sono rimasta sorpresa dalle attenzioni che si è guadagnato.
Il percorso tracciato da Cubeddu nella finestra volutamente polemica del giornale – non è un caso che questo sia l’articolo inaugurante una rubrica affidata allo scrittore dal titolo “Intransigenze” – è duplice: quello dell’accusa nei confronti delle quattordicenni ree di scegliere capi che l’autore ritiene inadatti – si domanda preoccupato “perché le ragazzine si vestono così da sgualdrine?” e “cosa pensano di ottenere?”, notando poi, forse incerto per il futuro sentimentale dei suoi cari, “nessuno dei miei amici si fidanzerebbe con una che si veste così” – e quello della riflessione sul futuro della donna, che non deve dimenticare come “
il primo motore dell’emancipazione femminile, più che la montagna fumante di reggiseni bruciati in piazza, è stata la salarializzazione della Seconda Guerra Mondiale”.
Al netto delle semplificazioni storiche e sociali, giustificabili forse per lo scarso spazio destinato all’articolo sul giornale o, meglio, dalla necessaria superficialità che viene sempre più frequentemente riservata alla donna e a ciò che la riguarda, probabilmente non è necessario riflettere sulla simpatica provocazione di Cubeddu più a lungo del tempo utile alla lettura.
È certamente superfluo dire che tutte le ragazzine e le ex ragazzine hanno il diritto e il dovere di indossare gli shorts in risposta a un così aberrante e strumentale maschilismo. È superfluo perché il trasparente scopo di un articolo del genere è solo quello di stimolare partecipazioni isteriche e impulsive, casomai lanciando un “chiappa day” dove unite nel nome degli shorts – e di ciò che il libero e naturale utilizzo del proprio corpo sottende, da quarant’anni a questa parte – un gruppo di post femministe o di neofite della riflessione di genere si uniscano in nome di cotanta provocazione. Ma sarebbe naturalmente inutile anche se graziosamente farsesco, perché ormai il nostro Paese ci ha abituato da tempo a ciò di cui questo articolo si nutre: sfruttare mediaticamente la donna in tutte le sue diramazioni e in tutti i suoi atteggiamenti, ridicolizzare tout court gli atteggiamenti critici nei confronti del dilagante sessismo che ingozza il nostro Paese abulico e iperfagico, capace di trasformare ogni cosa in una commedia all’italiana, trasversale tanto al mondo della cultura quanto a quello del giornalismo, e tronfia delle sue radici più vili e falloforiche.
Dalla lettura dell’articolo a firma di Cubeddu dovrebbe però nascere una riflessione non tanto in merito allo spazio che il quotidiano genovese ha dedicato all’autore, genovese anch’esso, e che si giustifica con la necessità vitale dei quotidiani di nutrirsi sempre di più di banalizzante polemica, e nemmeno dalla comprensibile necessità di conquistare spazi su quotidiani o settimanali da parte di chi ha un libro in uscita e decide di utilizzare consciamente la propria momentanea visibilità con l’intento di amplificarla – chissà poi come mai le donne sono argomento prediletto di questa numerosa specie di alpinisti contemporanei.
Punto cruciale dell’intervento è infatti la riflessione dell’autore, che nota: “penso che femminicidio sia una parola idiota. Ogni omicidio è un omicidio. E dovremmo condannarlo senza ricorrere a ridicole discriminazioni di genere. Inoltre, anche se impopolare, bisogna dirlo: spesso, le violenze domestiche nascono da situazioni in cui, donne con scarsa personalità, si legano a zotici della peggior risma”.
Ecco, sono parole come queste – e non le catartiche riflessioni che chiedono “siamo così convinti che mettersi il velo sia prigione e i minishorts siano libertà?” – a tracciare il confine fra una società che affida la parola a chi è in grado di affrontare il futuro, e una che sopravvive dando fiato ad aberranti retroguardie maschiliste. Pare dunque parossistico che, al termine dell’articolo, lo stesso Cubeddu noti “più che una questione di genere, mi sembra una questione di mancanza di strumenti culturali”. Chissà se, puntando il dito contro l’altro, in realtà non stesse indicando semplicemente se stesso.