E se alle donne per la parità servisse una Authority? | Giulia
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E se alle donne per la parità servisse una Authority?

In Italia abbiamo un sistema frammentato, depotenziato, delegittimato e privo della necessaria indipendenza. Perché non ascoltare le raccomandazioni dell'Europa? [di Claudia Onnis]

E se alle donne per la parità servisse una Authority?
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Claudia Onnis Modifica articolo

2 Luglio 2020 - 23.21


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Il Corona virus, con la rapidità e la potenza di uno tsunami, ha scoperchiato l’impalcatura della società italiana, offrendocela in tutta la sua fragilità. Uno degli imbarazzi più grandi, per una Paese che dal secondo dopoguerra ha avuto enormi opportunità di sviluppo (il Piano Marshall, il boom economico, l’ingresso da Paese fondatore nel mercato comune e nel processo di costruzione dell’Unione europea), è aver conservato, quasi intatta, la profonda arretratezza delle opportunità e degli spazi concessi alle donne.

Gravate dal lavoro di cura, espulse dal mercato del lavoro e ignorate dai centri decisionali, queste ultime, dopo una breve stagione di timidi progressi, rischiano ora di essere escluse dal disegno del Paese futuro, con la prospettiva reale di tornare indietro a quella esistenza di isolamento e lavoro domestico così ben rappresentata da Ettore Scola nel suo film capolavoro “Una giornata particolare”.

Un trattamento inaccettabile per chi ha combattuto in prima linea in questa terribile emergenza, essendo, le professioni ad alto rischio, tutte prevalentemente femminili: infermiere, ostetriche, addette alle pulizie, commesse, cassiere nei supermercati, badanti (nessun problema di declinazione al femminile su questo terreno).

E’ vero che molte tentano di reagire, ma sono divise e scoraggiate dalle tante bordate che arrivano con frequenza quasi quotidiana: le task force tutte maschili, i convegni tra soli uomini per parlare della ripartenza, l’esclusione dalle nomine RAI, le posizioni di vertice e i luoghi di autogoverno della magistratura, quelli sì, quasi tutti declinati al maschile.

Qua e là, poi, non mancano le voci femminili che si battono strenuamente contro la” vergogna” delle quote obbligatorie, tristi “riserve per la protezione dei panda”. D’altra parte, come predicano le sue antiche vestali, il femminismo è morto insieme alle ideologie del Novecento, tanto vale che le nuove generazioni si rassegnino e accettino il proprio destino, che è poi quello di sempre: stare a casa, zitte.

Per questo suonano così potenti le voci di chi si ribella, di chi protesta e continua a lottare, nel tentativo di rappresentare anche chi, forse, si è già arresa da tempo.

Dal movimento del dateci voce, alla proposta, forse provocatoria, di Rosanna Oliva de Conciliis, promotrice dello storico ricorso per l’accesso delle donne alle carriere pubbliche e presidente della Rete per la Parità, che invita ad applicare il concetto giuridico di abuso di posizione dominante anche per il contrasto al monopolio maschile. Fino al documento di Noi Rete Donne per un riequilibrio di genere nelle nomine pubbliche.

Ottima proposta, quest’ultima, articolata in sette punti, per assicurare la realizzazione di una piena democrazia paritaria, attraverso la garanzia del “50 e 50” nelle nomine pubbliche di competenza parlamentare e governativa.

Ai suoi sette punti si dovrebbe aggiungere però un ottavo e sostanziale punto: l’istituzione di un’Autorità Garante per la parità di genere. Abbiamo davanti agli occhi troppi casi di norme ignorate beatamente da politica e istituzioni che, per prime, sarebbero chiamate ad attuarle e rispettarle.

Un esempio per un altro: la normativa sui fondi pubblici ai partiti, che stabilisce, tra l’altro, un sistema di premi e sanzioni, in funzione della realizzazione di “iniziative volte ad accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica”. Il controllo sul rispetto della normativa è effettuato dalla Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici. Purtroppo dalle relazioni della Commissione, disponibili sul sito della Camera, non è possibile ricavare quali e quanti partiti siano in situazione di irregolarità rispetto alla quota del 10% del 2 per mille riservata alle iniziative a favore delle donne.

Peraltro, nel 2019 lo “spazzacorrotti” ha allargato le previsioni del decreto-legge n. 149/2013 alle fondazioni, le associazioni e i comitati politici. Come ben documentato da Openpolis nel suo ultimo rapporto dedicato al mondo delle fondazioni, queste sono ormai un importante bacino per nomine pubbliche e incarichi di governo. Peccato che al loro interno le donne siano poche e con posizioni marginali: la “grande minoranza” le ha definite, con efficace ossimoro, la stessa Openpolis, nel suo approfondimento sulla disparità di genere. E peccato che la stessa Commissione di garanzia, che si trova ora a dover estendere il suo controllo anche su questo vasto universo, abbia più volte denunciato la mancanza di mezzi per svolgere tali mansioni.

D’altra parte, già nell’era pre-Covid, il tema della parità di genere non è mai stato al centro dell’agenda politica e anzi, come fa notare l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE), in tutta Europa il tema è sempre meno istituzionalizzato. Questo regresso è ben rappresentato da quattro indicatori principali, individuati dall’EIGE e analizzati di recente nell’ambito della conferenza #PowerUpGenderEquality: il livello attribuito alla promozione dell’uguaglianza di genere nell’architettura istituzionale di un Paese; il personale e le risorse disponibili per tale promozione; l’effettiva applicazione del mainstreaming di genere; la produzione e disseminazione di statistiche disaggregate per genere. Su tutti questi quattro indicatori la prestazione italiana è tra le peggiori registrate a livello europeo.

Il nodo sta tutto nell’inefficienza dei meccanismi istituzionali per l’uguaglianza di genere. E’ la Commissione europea a dirlo, nella sua Raccomandazione (UE) 2018/951 sulle norme riguardanti gli organismi per la parità, richiamata anche nella recentissima Strategia per la parità di genere 2020-2025, adottata a marzo 2020.

Nella Raccomandazione, la Commissione sottolinea come le numerose direttive europee sulla parità concedano “un ampio margine di discrezionalità agli Stati membri in merito alla struttura e al funzionamento degli organismi dedicati, il che si è tradotto in differenze significative tra gli Stati membri in termini di mandato, competenze, risorse, struttura e funzionamento operativo di tali organismi”.

E via con un elenco di magagne che sembra risuonare particolarmente bene nel sistema istituzionale italiano: alcuni Stati membri hanno istituito più di un organismo per la parità, il che richiede la creazione di chiari meccanismi di coordinamento e di cooperazione; in altri, il mandato di quelli esistenti è stato esteso agli ambiti più svariati, senza un adeguato aumento delle risorse; alcuni organismi hanno persino subito significative riduzioni di bilancio, il che, osserva la Commissione “può portare ad una riduzione della capacità di svolgere le funzioni loro assegnate”. Vi sono poi casi di organismi “privi di indipendenza e che non riescono ad operare con efficacia”: “l’indipendenza potrebbe essere compromessa in particolare quando l’organismo per la parità è istituito nell’ambito di un ministero, che prende istruzioni direttamente dal governo”. Bingo!

Ma l’esecutivo europeo indica anche i possibili rimedi, per consentire agli organismi per la parità di funzionare correttamente e uniformemente in tutta l’Unione.  Questi, in sintesi, dovrebbero “essere adeguatamente dotati di autorità, visibilità, riconoscimento politico, finanziamenti e risorse umane necessari; disporre di un mandato con chiara base giuridica e funzioni e responsabilità ben definite” e, non ultimo, “fornire assistenza indipendente alle vittime, condurre inchieste indipendenti in materia di discriminazione, pubblicare relazioni indipendenti e formulare raccomandazioni su tutte le questioni connesse a tale discriminazione”.

Infine, La Commissione, raccomanda agli Stati membri di garantire che gli organismi per la parità operino in piena indipendenza nello svolgimento dei compiti loro assegnati, prestando particolare attenzione agli aspetti organizzativi: la loro collocazione nel sistema amministrativo nazionale, l’allocazione del loro bilancio e le procedure da essi seguite per la gestione delle risorse e, non ultimo, le procedure di assunzione e di licenziamento del personale.

Un percorso che sembra portare direttamente a ciò che nel diritto italiano è identificabile come un’autorità amministrativa indipendente, così come l’ha configurata nel tempo il Consiglio di Stato, evidenziandone gli elementi caratterizzanti[1]. Tra questi, l’espressa qualificazione normativa; la natura delle funzioni e la loro riferibilità alla tutela di valori aventi in qualche misura rilevanza costituzionale, che la legge intende sottrarre alla responsabilità politica del Governo; la mancanza di poteri di direttiva o di indirizzo in capo al Governo e la conseguente assenza di un centro di imputazione politica dell’attività dell’organismo; l’autonomia organizzativa e di bilancio; i requisiti richiesti ai componenti della Commissione e il sistema di nomina degli stessi e disciplina delle relative incompatibilità.

Se questo è il percorso tracciato dalla Commissione europea, forse è arrivato il momento di percorrerlo tutte insieme a passo di marcia, lanciando una vasta campagna che coinvolga associazioni e comitati femminili, parlamentari, magistrate, giornaliste e donne della società civile.

Non siamo forse stanche di essere la “stragrande minoranza” del Paese?

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