In occasione del 25 novembre dell’anno scorso, GiULiA Giornaliste espresse pubblicamente l’intenzione di focalizzare il nostro lavoro di cura del racconto della violenza di genere non soltanto sulle parole, ma anche sulle immagini utilizzate sui diversi media per illustrare i servizi di cronaca con vittime le donne. Lo slogan era “svecchiamo gli archivi delle testate giornalistiche”, per evitare di continuare a vedere pubblicate immagini incongrue o che perpetuano quegli stereotipi che si vorrebbero abbattere, magari in netto contrasto con quanto viene scritto nell’articolo.
Stanche di vedere immagini di giovani donne in situazioni di maltrattamento, spesso inutilmente discinte, talora in pose destinate a sollecitare la morbosità dei lettori, anche le componenti della Commissione pari opportunità dell’Associazione Stampa Emilia-Romagna hanno voluto lavorare sullo smantellamento di stereotipi e pregiudizi nella rappresentazione della violenza di genere accogliendo l’idea della collega Vera Bessone di lanciare un contest fotografico che permettesse di trovare immagini più corrette e rispettose dei corpi femminili. Il contest, lanciato dalla presidente della Cpo dell’Aser Dora Carapellese l’8 marzo di quest’anno, doveva concludersi con la premiazione di vincitori e vincitrici lo scorso 25 novembre. Il concorso era riservato a giornaliste/i e fotoreporter. Le aspettative erano alte.
Il risultato è stato sconcertante. Alla fine, nessuna delle opere partecipanti è stata ritenuta sufficiente, in base ai canoni proposti, e sono stati soltanto consegnati attestati di partecipazione.
Una premessa è doverosa. Fare cronaca nera è difficile, malgrado i capi continuino ad affidarla all’ultimo/a arrivato/a in redazione, che così “si farà le ossa”. Fare cronaca nera in maniera corretta ed etica è difficilissimo e fino a poco tempo fa tutto era lasciato al fai da te, alla buona volontà di cronisti autodidatti, costretti ad imparare dai propri inevitabili scivoloni. La scelta delle immagini, in capo al deskista, è quasi sempre frettolosa, una scorsa di quello che passa il convento, cioè l’archivio, spesso non aggiornato da tempo e male indicizzato. Il tempo stringe, sempre, certo non sufficiente per cercare una foto non rivittimizzante, che poi spesso non c’è.
Il problema però è a monte, evidentemente. Lo dimostra l’esito di questo contest. Anche quando giornaliste/i e fotoreporter possono fermarsi per una riflessione, faticano a trovare risposte valide sul tema. Purtroppo, la gran parte delle immagini arrivate, invece di scardinare gli stereotipi, li confermano e li avallano. Alcune sono totalmente fuori contesto, incomprensibili, non adatte alla pubblicazione. L’effetto è straniante perché, al contrario di quanto richiesto, vi sono immagini molto violente e anche razziste (l’uomo nero che percuote la donna bianca, ad esempio).
Le consegne erano chiare: «La foto dovrà essere simbolica e trasmettere il concetto senza eccedere con sangue o scene raccapriccianti», «la foto non dovrà in alcun modo rivittimizzare la donna, evitando di mostrarla fragile e indifesa o, peggio, nuda o vestita in modo succinto». Altrettanto chiari i criteri di valutazione: l’idea/impatto del messaggio, la possibilità di utilizzarla sui vari media, oltre alla tecnica e all’originalità.
Le immagini inviate sono risultate, nel migliore dei casi, banali. Quasi sempre impubblicabili, per lo meno sui quotidiani, perché lontane dai canoni del fotogiornalismo (nessun quotidiano usa più foto in bianco e nero, per esempio, né può utilizzare immagini talmente concettuali da risultare incomprensibili al pubblico). Secchi pieni di sangue o aggressioni domestiche troppo realistiche non sono state ritenute idonee dalla giuria, composta da giornaliste e fotografe.
Il pur apprezzabile sforzo di cercare linguaggi nuovi e immagini diverse per raccontare la violenza di genere si è scontrato con i bias che, evidentemente, ci pervadono a tal punto da avere il sopravvento anche quando pensiamo di contrastarli. In altre occasioni, contest analoghi come quelli organizzati qualche anno fa da GiULiA Lombardia, con il titolo Lo sguardo di GiULiA avevano dato risultati migliori, anche se le immagini proposte erano più adatte a campagne di pubblicità-progresso che non alla cronaca nera. Quest’ultima esperienza ci ha fatto capire che c’è ancora molto da lavorare nel racconto visivo del femminicidio e della violenza contro le donne.
Lo consideriamo comunque un punto di partenza, uno stimolo per fare qualche riflessione e andare avanti. GiULiA intende continuare a lavorare sul tema proponendo anche corsi di formazione per allineare la nostra sensibilità visiva a quella che, per fortuna, si comincia ad avere nel raccontare la violenza di genere e nell’uso delle parole.