Braccianti, badanti, immigrate: storie di madri dal cuore spezzato | Giulia
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Braccianti, badanti, immigrate: storie di madri dal cuore spezzato

Nel libro "Le madri lontane" Stefania Prandi viaggia alla ricerca delle donne bulgare e romene che lasciano i loro figli per lavorare nei nostri campi, quasi sempre in nero

Braccianti, badanti, immigrate: storie di madri dal cuore spezzato
Miruna abita a Zmeu, ha 27 anni ed è incinta del secondo figlio. «Sono andata via due volte, per tre mesi, quando il mio primo bambino aveva solo due anni». Foto di Stefania Prandi
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Paola Rizzi Modifica articolo

12 Luglio 2024 - 15.21


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Le mamme non sono tutte uguali. In questa stagione di esaltazione ideologica della maternità che a più livelli è chiamata ad operare per il bene della “nazione”, al vertice con il piglio di Giorgia, autoproclamata madre della Patria, e in basso con le madri arruolate a combattere col loro corpo e a mani nude lo spauracchio dell’inverno demografico, magari con le mancette dei bonus antiaborto immaginate dai Gasparri di turno, ci sono donne intorno a noi, nel nostro paesaggio familiare e sociale, a cui la maternità è di fatto negata. Non possono allattare i loro figli, non possono vederli crescere, non possono prendersene cura quando sono malati. Il libro-inchiesta della fotogiornalista (e Giulia) Stefania PrandiLe madri lontane” (People, 128 pg, 15 euro) dedicato alle braccianti bulgare e romene che lavorano nei campi di fragole e di meloni nelle nostre campagne, sottoposte ai soprusi e alle violenze dei caporali, è percorso dalla rassegnazione dolente di queste donne dalle vite spezzate e quasi mai ricomposte. Un reportage dal fronte di «vere e proprie zone di guerra di genere» come scrive Chiara Cretella nella postfazione, un conflitto permanente che parte dalle aree rurali e impoverite dei paesi di provenienza, dove sopravvivono strutture sociali arcaiche e patriarcali, per ritrovarle poi tali e quali, nella sostanza, nelle campagne di Calabria, Puglia e Basilicata, far west della illegalità dei rapporti di lavoro. A farne le spese le donne, costrette ad emigrare per mantenere la famiglia ma spesso stigmatizzate dalle comunità perché abbandonano i figli, per finire in contesti dove è normale che il caporale ti ricatti sessualmente e salvo eccezioni e fortunati incontri con associazioni e sindacalisti sensibili, non c’è nessuna possibilità di difesa se non andarsene e rinunciare al lavoro, in nero naturalmente.  

Nel suo viaggio nelle regioni remote dell’Europa orientale dove il crollo dei regimi socialisti ha chiuso le fabbriche e cancellato il lavoro e attraverso interviste alle protagoniste e ad esperti, Prandi fa affiorare l’ingiustizia di una condizione che crea disagio sociale e psichico a cascata. La primaria dell’ospedale di Iași, in Romania, racconta che il 5% delle sue pazienti è affetto dalla “sindrome Italia”,  la condizione di sofferenza dovuta all’aver delegato la maternità ad altri, un’espressione coniata inizialmente da due psicologi ucraini nel 2005 a proposito delle badanti, ma che vale anche per le braccianti. Un mix di insonnia, depressione, disturbi d’ansia, isolamento, che a volte fa arrivare le donne all’ospedale in ambulanza. Ma il malessere colpisce anche gli “orfani bianchi”  o, con una definizione inglese usata dall’Unicef , i “left behind“, i lasciati indietro, i bambini affidati ai nonni o altri parenti in assenza dei genitori espatriati, che vivono il senso di abbandono che rinfacciano alle madri, con alti tassi di abbandono scolastico che condizioneranno poi il loro futuro. Commovente la testimonianza di Rosita Alexandrova, maestra di scuola bulgara che aiuta i sui allievi a scrivere alle madri lontane: «Nel corso degli anni ho avuto molti alunni con le mamme emigrate per lavorare. La mattina, appena arrivati, mi chiedevano di abbracciarli perché si sentivano soli».

La maestra Rosita Alexandrova. Foto di Stefania Prandi

Nella casistica del dolore e del senso di colpa che racconta Prandi esistono poi anche le madri che non hanno nessuno a cui lasciare i figli piccoli e se li portano dietro nei campi o negli asili informali allestiti nelle baracche accanto alle coltivazioni. E quando sono un po’ più grandi, li lasciano soli. La figlia di Maria, romena, bracciante a Ginosa, in provincia di Taranto, aveva 5 anni quando ha cominciato a stare a casa da sola: «Se devi mangiare non hai alternative…quando mia figlia era malata io non ero mai vicino a lei. Le preparavo lo sciroppo con la siringa sul comodino e lei lo prendeva da sé. Se manchi un giorno dal lavoro, il giorno dopo ti lasciano a casa per ripicca». Nel catalogo delle violenze di genere a cui sono sottoposte queste donne invisibili ovviamente anche le molestie sessuali e i rapporti forzati, con conseguenze collaterali mai abbastanza indagate, come l’aumento degli aborti nelle stagioni di raccolta negli ospedali vicini alle campagne. Racconta Prandi: «È risaputa, ad esempio, la storia dell’“uomo delle cime di rapa”, un caporale con un metodo consolidato – usato anche da altri capi – che mi è stato raccontato per la prima volta nel 2017. Nel barese, la mattina, quando arriva il furgone, la bracciante «prescelta» deve salire davanti, nello spa­zio accanto al guidatore. Sul cruscotto vengono posizionati un cornetto e il caffè. Mangiare la colazione significa accettare la proposta sessuale e quindi ottenere l’ingaggio. Rifiutando, in­vece, il giorno dopo si resta a piedi, con la scusa che non c’è abbastanza richiesta di manodopera. E si è tagliate fuori dal giro per un certo periodo».

L’inchiesta di Prandi, da anni impegnata a indagare lo sfruttamento del lavoro nelle campagne e le varie forme di violenza di genere, ha prodotto anche un reportage fotografico e una mostra che porta in giro per l’Italia i volti di queste madri lontane e dei loro figli left behind. Il tour riparte da settembre a Modena mentre il libro sarà presentato il 29 luglio a Potenza, alla notte bianca del libro. 

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