Come si può chiamarlo amore? | Giulia
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Come si può chiamarlo amore?

Le storie delle donne immigrate sono spesso dolorose: le leggi e gli affetti non camminano insieme. Neanche quando "lui" è italiano. Di [Marika Borrelli]

Come si può chiamarlo amore?
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28 Settembre 2012 - 23.21


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Ha circa quarant’anni. Viene dal Sudamerica e vive in Italia da più di dieci anni. Si presenta un po’ dimessa nell’aspetto, ma ha uno sguardo fiducioso. Ha con sé una ragazzina. Ha avuto questa figlia dal suo convivente italiano, dice presentandosi.

Mi chiede come si fa a diventare cittadina italiana. “Sai – mi dice – è molto complicato e costoso chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno. Oramai, vivo qui. Mia figlia è italiana, ha dieci anni.”

Le chiedo se ha un reddito, ovvero se lavora in Italia. “No. Lui non vuole che lavori.” Mi risponde con un pizzico di compiacimento: le sembra una grande dimostrazione di affetto.

Purtroppo, per diventare cittadini italiani — a meno che non sia per matrimonio con un/a cittadino/a italiano/a – dopo dieci anni di residenza continua e regolare nel nostro Paese, c’è bisogno anche di un reddito personale da lavoro, sufficiente al proprio mantenimento, oppure che nello stato di famiglia ci sia almeno un famigliare (con vincolo di sangue o giuridico) che guadagni per mantenere tutti. Ma lei, questa donna dalla pelle ambrata, i capelli molto ondulati e l’aspetto stanco, non lavora e non è sposata.

“Ho seguito un corso di formazione professionale qui in Italia e potrei lavorare come operatore sociale. Avevo trovato un impiego a dieci minuti da casa, ma lui non mi ha permesso di lavorare.”

Scuoto sconsolata il capo. Così come stanno le cose, lei non può chiedere la cittadinanza, tanto meno per il semplice fatto che è madre di una bambina italiana.

Le spiego che non ha alcuna possibilità, a meno che trovi un lavoro o che sposi il padre di sua figlia. Lei mi confessa che lui non ha alcuna intenzione di sposarla.

Se un giorno quest’uomo la lasciasse o morisse, lei non avrà più sostentamento. E qualora non trovasse più un’occasione per un lavoro contrattualizzato (praticamente impossibile di questi tempi in Italia e specialmente nell’Italia del sud), ai diciott’anni di sua figlia non potrà neanche più avere il rinnovo del permesso di soggiorno. A meno che la figlia — diventata maggiorenne – non trovi immediatamente un lavoro che sostenga, con un reddito adeguato, lei e la madre.

Non so fino a che punto è una questione di leggi e regole restrittive. Penso, piuttosto, che la libertà e la dignità di questa donna sia gravemente compromessa, ma non dalle leggi italiane. È in un vicolo cieco. Aveva avuto pure la buona sorte di un lavoro adeguato al suo titolo di studio e vicino casa in modo da poter badare anche alla figlia, ma il suo uomo non le ha permesso di lavorare, e, quindi, di rendersi autonoma, di tutelarsi, di garantirsi il diritto di vivere nel nostro Paese dignitosamente, di diventare cittadina italiana per scelta, per affetto verso la nazione che l’ha ospitata.

Ad un certo punto, il suo sguardo diventa duro: ha compreso che ciò che lei idealizzava come un gesto di amore e di orgoglio da parte del suo uomo è una specie di trappola. Mi saluta e va via. Io mi accorgo che sta asciugandosi una lacrima.

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