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Quando (anche) le parole uccidono le donne

Con questo articolo l'autore ha vinto il premio dell'Ordine delle giornaliste e dei giornalisti. Il 28 aprile sarà premiato a Perugia. Di [Luigi Caputo]

Quando (anche) le parole uccidono le donne
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18 Aprile 2013 - 19.38


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Con questo articolo Luigi Caputo ha vinto il premio [b]Formazione per informazione[/b], il concorso rivolto alle studentesse e agli studenti delle Scuole di giornalismo dell”Ordine nazionale delle giornaliste e dei giornalisti. Domenica 28 aprile alle ore 12.00, Sala Lippi, nell’ambito del Festival internazionale di Giornalismo a Perugia, si terrà la cerimonia di premiazione. Luigi è uno studente del master Walter Tobagi dell”Università degli Studi di Milano, dove è tuttora in corso la rassegna stampa Errori di Genere di GiuliaLombardia. Ci fa piacere pensare che un piccolo seme è germogliato. L”elenco di chi ha vinto nelle altre varie sezioni (carta stampata, online, radio, tv) al link http://www.odg.it/files/vincitori.pdf

Un marito uccide la moglie a colpi di mattarello. La colpisce più volte alla testa fino a quando il suo corpo cade in terra senza vita. Accade in un’abitazione nel centro di Rieti. Per il Tgr del Lazio è «un delitto passionale», come riporta la scritta in sovraimpressione. Nel servizio il giornalista racconta che «l’uomo era molto innamorato, quanto geloso». Uccidere per gelosia, in preda a un raptus, perché ci si sente traditi. Sono casi di stereotipi di genere, luoghi comuni di cui i media si fanno portavoce e che implicitamente discriminano le donne a partire dal linguaggio. Si utilizzano parole come gelosia, follia per spiegare un fenomeno che in realtà ha radici più profonde. Spiega Adriana Terzo, giornalista dell’associazione GiULia (gruppo di reporter in prima fila contro le discriminazioni linguistiche): «I giornali sbagliano a identificare la causa di un delitto nel raptus. Il raptus in sé non esiste perché una donna prima di essere uccisa subisce minacce, percosse e questo i media non lo dicono. Così si perpetra una doppia violenza».

Secondo una ricerca sulla copertura mediatica dei casi di femminicidio compiuta dalla professoressa Elisa Giomi, docente in Tecniche di comunicazione di massa all’Università di Siena, i sei più importanti telegiornali italiani (quelli Rai e Mediaset) selezionano le storie in base a determinati criteri di notiziabilità. Anche se la tipologia di reato più comune avviene tra partner che si conoscono (100 casi su 162), gli episodi più raccontati sono quelli in cui la vittima non ha una relazione con l’assassino. Il movente più richiamato è il possesso. Perché? Secondo la professoressa Giomi, i giornalisti trattano il fenomeno in modo superficiale, ricorrendo agli stereotipi di genere per non indagare a fondo: «La cosa sorprendente è che ancora oggi si parla di uomini che uccidono donne per gelosia o perché troppo innamorati. Ai media interessa tirare fuori storie che appassionino il pubblico senza rintracciare le cause del problema. Queste costruzioni linguistiche alla fine alterano la semantica del femminicidio finendo per dare una giustificazione implicita all’assassino. Non viene raccontato che invece questi uomini sfogano sulle donne i loro problemi esistenziali». Il ruolo delle giornaliste e dei giornalisti è cruciale nella percezione del fenomeno. Un’informazione priva di stereotipi di genere è indispensabile per far emergere il sommerso che sta alla base degli atti violenti: «La mancanza più stridente nei telegiornali – continua la docente – è la corretta contestualizzazione degli eventi. Implicitamente si conferiscono attenuanti per rendere accattivante la notizia. I giornalisti invece dovrebbero svolgere un ruolo chiave nella percezione esatta di ciò che accade».

Gli stereotipi di genere non riguardano solo episodi di femminicidio. Un caso emblematico è la declinazione al femminile dei termini che indicano posizioni di potere. I giornalisti utilizzano parole come cassiera, cameriera, ma sono reticenti nel scrivere sindaca o ministra. Per molti suona inusuale. Secondo il presidente emerito dell’Accademia della Crusca, Francesco Sabatini questo assunto è sbagliato: «Tutte le cariche sono declinabili al femminile e quindi non è vero che l’italiano non lo prevede. È anche sbagliato sostenere che determinate parole al femminile suonano male, perché non indicare il genere giusto crea solo confusione nella comunicazione». Per Sabatini la ragione di queste storpiature è essenzialmente culturale: «Negli altri Paesi hanno femminilizzato tutto. In Italia c’è una certa resistenza perché si tende a conservare un modello culturale maschilista che non concepisce le donne in posizioni di comando. La discriminazione si combatte a partire dalle parole, altrimenti le donne non esistono. In questo senso i giornalisti dovrebbero favorire un uso corretto del genere femminile».

Il vademecum stilato dall’associazione GiULia per un’informazione priva di stereotipi di genere invita i giornalisti a non riportare le esternazioni dell’assassino, a evitare di colpevolizzare la vittima indicando i particolari del suo abbigliamento e a non relegare il femminicidio a raptus di follia. Sono piccoli accorgimenti per un’informazione corretta e socialmente utile. Le parole sono importanti, dopotutto.’

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