Se la violenza si misura con il cronometro. Ecco perché servono leggi sul consenso e sulle molestie sessuali | Giulia
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Se la violenza si misura con il cronometro. Ecco perché servono leggi sul consenso e sulle molestie sessuali

Non c'è violenza se abbiamo aspettato 20 secondi prima di "dileguarci" da un approccio sessuale non voluto. Depositate le motivazioni della sentenza di assoluzione di un sindacalista della Cisl. Iniziativa a Roma il 23 con la donna che lo aveva denunciato

Se la violenza si misura con il cronometro. Ecco perché servono leggi sul consenso e sulle molestie sessuali
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Paola Rizzi Modifica articolo

18 Settembre 2024 - 16.11


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D’ora in poi quando si va ad un colloquio, in un contesto professionale, in una stanza chiusa, per parlare di problemi di lavoro, magari con un sindacalista che dovrebbe tutelare lavoratori e lavoratrici, sarà lecito aspettarsi che costui possa chiudere la porta e cominciare a palpeggiarci, una condotta considerata assolutamente appropriata anche in quel contesto se noi non ci ribelliamo, anzi ci “dileguiamo” immediatamente. Meglio portarsi dietro un cronometro perché venti secondi di mancata reazione sono già troppi. Il range temporale, nelle ultime sentenze relative a processi su violenze e molestie, sembra diventato dirimente  e nello stesso tempo insidioso. Per esempio dieci secondi sono troppo pochi per configurare una violenza sessuale nel caso in cui un bidello a scuola infili una mano nelle mutande di una minorenne e la sollevi di peso. Sarebbe uno scherzo innocente, secondo una sentenza del tribunale del 2023 di Roma, senza una vera intenzionalità di violenza. Che ridere.

Nei giorni scorsi sono uscite le motivazioni della sentenza del 24 giugno della Corte di appello di Milano che confermava  l’ assoluzione in primo grado di un sindacalista della Cisl, accusato di violenza sessuale da un’assistente di volo, Barbara D’Astolto, che nel 2018 si era rivolta a lui per una consulenza nell’ambito di una vertenza di lavoro. Nella sentenza si spiega bene la dinamica, senza contestare il racconto della vittima, ossia che mentre la lavoratrice illustrava le sue carte, seduta alla scrivania nell’ufficio di Malpensa, lui si alzava, chiudeva la porta, le diceva “sfogati pure siamo soli” e cominciava a toccarla dappertutto. Dopo 20-30 secondi, secondo il racconto della donna,  lei gli diceva “cosa stai facendo” e lui si interrompeva. Basta questo al collegio giudicante per stabilire che non c’è stata violenza perché M. non ha esercitato violenza, ha interrotto non appena lei ha manifestato esplicitamente la sua assenza di consenso, non c’è stato, sempre secondo i giudici, abuso di autorità. Quei 20 secondi senza una reazione esplicita lo avrebbero quindi autorizzato a proseguire.  Un silenzio assenso insomma. Come si legge nel dispositivo redatto per altro da una donna, la giudice Flores Giulia Tanga «ne discende con ciò che la condotta non ha (senz’altro) vanificato ogni possibile reazione della parte offesa, essendosi protratta per una finestra temporale che le avrebbe consentito anche di potersi dileguare». Per proseguire: «Né può valorizzarsi, come vorrebbero parti appellanti, lo stato di ‘timore’ indotto dalla corporatura massiccia dell’imputato – peraltro, neppure descritta in modo puntuale e preciso negli atti d’appello -, avendo avuto questa Corte agio di constatare che trattasi di individuo di stazza assolutamente normale». Cioè, ci si può sentire minacciate solo da una certa stazza in su. Oltre a cronometrare il tempo di risposta si potrebbe stabilire un range di peso, come nel pugilato: i pesi welter non costituiscono una minaccia, si deve essere almeno un peso medio.

Battute a parte, queste sentenze ripropongono con forza il tema del consenso e quello delle molestie sessuali sui luoghi di lavoro, due fattispecie che il nostro ordinamento fatica ad introdurre nella legislazione sulla violenza sessuale, nonostante le esplicite raccomandazioni al nostro Paese contenute nel rapporto Grevio, il gruppo di esperti che monitora l’adesione ai principi stabiliti dalla Convenzione di Istanbul a cui l’Italia aderisce dal 2013. All’articolo 36 la Convenzione stabilisce che «Il consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto». L’Europa non è riuscita a varare una direttiva che contenesse un comma sul consenso, per l’opposizione di molti Paesi, ma singoli Stati hanno adottato leggi nazionali, come la Spagna, i Paesi Bassi, Germania, Portogallo.  L’Italia no. Il punto è ribaltare l’onere della prova: come dimostra la sentenza che ha assolto il sindacalista, il presupposto è che oggi nei tribunali per provare la violenza, la vittima deve dimostrare di aver reagito in ogni modo alla violenza stessa.  Come spiega in un comunicato di condanna Differenza Donna «il collegio non solo minimizza il trauma subito dalla vittima, ma ribadisce il vecchio paradigma che continua a gravare sulle donne: in caso di aggressione sessuale l’onere della difesa è delle donne. La Corte sostiene infatti che, nei venti-trenta secondi in cui l’imputato ha toccato la vittima senza il suo consenso, lei avrebbe potuto andarsene. Questa affermazione, sottolinea l’avvocata Teresa Manente, ignora totalmente la realtà psicologica e fisica che le donne vivono in situazioni di aggressione sessuale e rappresenta una grave inversione della responsabilità: chi subisce la violenza viene biasimato, mentre chi la compie viene giustificato. Questo tipo di argomentazione è frutto di una mentalità patriarcale, che non ha alcun posto nella giustizia moderna. Faremo ricorso per cassazione perché è irrinunciabile promuovere un cambiamento culturale giuridico che ponga finalmente il consenso al centro del reato di violenza sessuale, così come già raccomandato da numerose istituzioni internazionali. Non possiamo più accettare che si chieda alle donne di difendersi o di reagire per vedere riconosciuta la violenza che subiscono».  

L’altro vulnus messo in luce dalla sentenza è la mancanza di una fattispecie di reato di molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Un rapporto dell’Istat del 2024 scrive nero su bianco che circa il 13,5% dele donne tra i 15 e i 70 anni che lavorano hanno subito nella loro vita una molestia sui luoghi di lavoro. Per quanto riguarda lo specifico del ricatto sessuale dichiarano di esserne state vittime, nel biennio 2022-2023 circa 65mila donne, con un calo drastico rispetto agli anni precedenti, ma comunque tantissime.   Tali da ritenere urgente l’approvazione di una legge ad hoc: vale la pena ricordare che c’è una proposta che giace in Parlamento dal 1996.

Nella vicenda di Barbara D’Astolto va segnalato che la copertura mediatica del fatto (vedi soprattutto gli articoli di Giampiero Rossi del Corriere della Sera) ha portato, ex post, all’allontanamento  da parte della Cisl del sindacalista e riacceso i riflettori sulla vicenda delle molestie. Come ha dichiarato D’Astolto al Corriere: «Leggere queste motivazioni è stato un pugno nello stomaco più forti dei precedenti. Io avevo chiesto di essere ascoltata durante il processo d’Appello ma non mi è stata data questa possibilità. In ogni caso dal processo è emerso che i fatti si sono svolti in quel modo…e poiché tutto è avvenuto in un contesto sindacale, mi aspetto una parola almeno dalla Cisl. Il segretario Luigi Sbarra solo dopo una sollecitazione mediatica, mi aveva promesso di collaborare, ma poi non l’ho più sentito».

D’Astolto sarà presente all’iniziativa organizzata da Differenza donna a Roma su Lavoro e molestie. Voci, norme, sentenze, il 23 settembre alle 10 nella sala Laudato si in piazza del Campidoglio.

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