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Democrazia paritaria: storia di un voto negato

1866: la legge per unificare la legislazione privò del diritto di voto le donne Toscane e del Lombardo Veneto che ne avevano fino ad allora diritto. Di [Giorgio Frasca Polara]

Democrazia paritaria: storia di un voto negato
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29 Gennaio 2013 - 13.19


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Tra pochi giorni cade un anniversario importante, ma che certamente passerà inosservato: il 1° febbraio del 1945 il primo governo costituito dopo la Liberazione (presidente Ivanoe Bonomi), alle viste delle prime libere elezioni amministrative – i podestà erano stati appena cacciati -, sancì per decreto: “Il diritto di voto è esteso alle donne”, diritto di eleggere e di essere elette. E un anno dopo, alla vigilia del referendum monarchia-repubblica e delle elezioni politiche per la Costituente, una legge affermerà che sono elettori attivi e passivi, alle politiche come alle amministrative, “tutti i cittadini e cittadine italiani maggiorenni”. Oggi sembra ovvio che le donne abbiano diritto di votare e di essere elette; e ai più giovani parrà scontato che questo diritto risalga alla notte dei tempi. E invece non è così: c’è voluto quasi un secolo di battaglie perché questo essenziale diritto di democrazia si affermasse.

La storia, nel passato, ha addirittura camminato all’indietro: la legge del 1866 per l’unificazione della legislazione della nuova Italia aveva infatti privato del diritto di voto (solo amministrativo) le donne della Toscana e del Lombardo Veneto che lo avevano sino ad allora esercitato. Poi una lunga serie di bocciature e di insabbiamento di progetti pur limitatamente favorevoli alle donne. Nel 1871, per esempio, il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Giovanni Lanza, Destra storica, propone che le donne “potranno mandare il loro voto per iscritto” (insomma, che per carità non si presentino ai seggi), ma solo per le amministrative. Perché la limitazione? “Qualche fondamento può esservi nelle costumanze per negar loro il voto politico”. E comunque il progetto decade alla chiusura della sessione.

Dieci anni dopo sarà un esponente della Sinistra, Agostino Depretis, a riproporre la necessità che le donne votino ma – ci risiamo – solo alle amministrative. La commissione della Camera modifica il progetto, lo circoscrive ancora (niente voto per posta, semmai “per delega”al marito!) ma mette in dubbio che “l’innovazione sia avvalorata dal consenso e dall’autorità di tutti i partiti”: “Niuno di noi impugna il diritto naturale della donna al suffragio; e solo si discute intorno alla convenienza e opportunità di applicarlo”. Risultato, anche questo progetto si arena.

Nel 1881 nuovo scontro, sulla nuova legge elettorale. Un gruppo di deputati sostiene il suffragio “universalissimo”, e quindi anche non limitato al censo, cioè solo a chi ha soldi, ed esteso anche alle donne. Allora è Depretis a opporsi. Leggiamo insieme un passo del suo intervento: “Non credo che questa proposta avrebbe il voto favorevole se la stessa più bella metà dell’umana famiglia fosse direttamente consultata” (negli atti parlamentari c’è un’annotazione dello stenografo: “Ilarità”). La donna ha altri mezzi d’influenza, di azione assai più potenti del voto!” (Altra annotazione nel resoconto: “Ilarità prolungata”). E quando viene messa ai voti, la norma sulle donne è bocciata. E respinto anche un emendamento che introduce il voto femminile ma solo per maestre e laureate.

Stessa sorte alle proposte degli anni successivi e con le più incredibili giustificazioni. Nel 1912, in sede di discussione di una nuova riforma elettorale, Giovanni Giolitti, che pure aveva avuto un ruolo fondamentale nell’abolizione del voto per censo e quindi per l’estensione del diritto elettorale a tutti gli uomini, reagisce ad un ennesimo emendamento che estendeva alle donne il solo elettorato attivo e non anche il diritto di essere elette. “Il voto alle donne – dice – equivarrebbe a fare un salto nel buio: qualunque governo sarebbe obbligato a non dar seguito alla riforma”. Insomma: “Non si può consentire un voto che trasformerebbe la vita politica dell’Italia”. Emendamento respinto a larghissima maggioranza.

Nel 1924, dopo la presa del potere da parte di Mussolini, sulla carta viene riconosciuto il diritto di voto solo amministrativo alle donne. Il fascismo voleva dimostrare di non aver paura dell’elettorato femminile? Comunque si tratterà solo di un trucco demagogico: di lì a poco, e prima che si svolga una qualsiasi elezione per comuni e province, la dittatura abolisce il carattere rappresentativo degli organi locali: è la lunga stagione dei podestà e dei governatori, come pure dei presidi e dei rettori: tutti nominati dal partito fascista. Solo con la Liberazione soffierà sulle istituzioni il vento della democrazia.

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