'Lutti: addio a Wislawa Szymborska, con le sue poesie (e l''ironia) vinse il Nobel 1996' | Giulia
Top

'Lutti: addio a Wislawa Szymborska, con le sue poesie (e l''ironia) vinse il Nobel 1996'

'Sapeva cogliere nelle piccole cose il miracolo dell''esistenza. La più grande poeta del ''900 e scrittrice polacca è morta a Cracovia. Aveva 88 anni'

'Lutti: addio a Wislawa Szymborska, con le sue poesie (e l''ironia) vinse il Nobel 1996'
Preroll

Redazione Modifica articolo

2 Febbraio 2012 - 15.11


ATF

‘Cracovia, 2 feb – La premio Nobel per la letteratura Wislawa Szymborska – nata nel 1923 a Kornik (Polonia) e morta ieri a Cracovia all”età di 88 anni – aveva pensato per tempo al suo epitaffio, scritto naturalmente in versi: “Qui giace come virgola antiquata/l”autrice di qualche poesia. La terra l”ha degnata/dell”eterno riposo, sebbene la defunta/dai gruppi letterari stesse ben distante./E anche sulla tomba di meglio non c”è niente/di queste poche rime, d”un gufo e la bardana./Estrai dalla borsa il tuo personal, passante,/e sulla sorte di Szymborska medita un istante”.

La poesia Epitaffio compare nella raccolta Sale, che è del lontano 1962. Ma i tratti più tipici della sua poetica ci sono già tutti: grande sense of humour, diffidenza verso l”appartenenza a scuole e gruppi letterari, frequente ricorso a tonalità basse, in sordina. Il tutto al servizio di una scrittura che sarà sempre tesa a risvegliarci dal torpore in cui cadiamo di continuo, mentre basterebbe tenere gli occhi aperti per cogliere i mille miracoli dell”esistenza: una nube che passa, un cane che chiede una carezza, l”incontro con un vecchio professore. Quanto a lei, Wislawa, riusciva a compiere il proprio miracolo grazie all”improvvisa accelerazione di immagini e domande che affollano ogni sua lirica, sì che nello spazio di pochi versi un evento qualsiasi spalanca al nostro sguardo le cose prime e ultime della vita. Affrontate sempre con semplicità, nitore e una paradossale congiunzione di “incanto e disperazione”.

Ecco spiegata così la grande popolarità della signora di Cracovia, il fatto che le sue letture in giro per il mondo fossero affollate, lo hanno detto in tanti, come ”i concerti delle rockstar”. Ed ecco spiegato perché le edizioni dei suoi versi si siano moltiplicate anno dopo anno. Anche qui da noi, in Italia, per merito del suo massimo esegeta e traduttore, Pietro Marchesani (anche lui, ahimé, recentemente scomparso) che le ha curate tanto per Adelphi quanto per Scheiwiller.

Né meno originale è la sua opera in prosa: cinque volumi di Letture facolative, recensioni sui generis attorno a libri sui generis (di giardinaggio, memorialistica, economia domestica); oltre a un libro di Posta letteraria, titolo della rubrica in cui per lunghe stagioni ha distribuito spassosi e puntualissimi consigli a poeti e scrittori in erba. Spesso e volentieri invitati a soprassedere su una malposta vocazione letteraria. E a dedicarsi piuttosto a un”altra attività non meno gratificante: la lettura.

Ancora, di Szymborska si sapeva che venerava il riserbo, che giocava con le parole (era abilissima nei non sense e nei limerick), che adorava il collezionismo e gli animali. Infine amava Mark Twain, Fellini, Thomas Mann e Vermeer, al quale aveva dedicato nell”ultima raccolta una piccola, straordinaria poesia dalla quale traspariva il medesimo senso di sospeso raccoglimento, di quieto e abbacinante silenzio, intriso di quotidiana metafisica. Col passare del tempo, il tratto congetturale e ipotetico dei suoi versi si era andato accentuando, mentre tornavano e ritornavano quelle due parolette “non so”, attorno a cui già ruotava l”indimenticabile discorso di investitura al Nobel. Più si procede nella vita, sosteneva la signora di Cracovia, più crescono le domande e si offuscano le risposte: realtà e sogno si intrecciano in modo inestricabile, mentre il tempo si dilata e si rapprende a suo piacimento.

I titoli delle ultime raccolte, in tal senso, non sono casuali: Attimo, Due punti, Qui. Titoli sempre più brevi, sempre più semplici, sempre più icastici, legati tra loro giust”appunto dal problema del tempo; nella duplice ossessione dell”eterno ritorno e dell”intrinseca caducità di un”esperienza unica e irredimibile: “Non c”è giorno che ritorni, non due notti uguali uguali/, né due baci somiglianti/, né due sguardi tali e quali”.

L”uomo è ”un essere temporale”, che legge la sua vita e quella del mondo attraverso la successione dei momenti, ma proprio perciò è impossibilitato a sprofondare nel momento, a vivere interamente ogni singolo istante, stretto com”è tra il ricordo del passato e l”attesa del futuro: “Perché tu, malvagia ora/dai paura e incertezza?/ Ci sei – perciò devi passare/. Passerai – e qui sta la bellezza”.

[b]Museo[/b] (1962)

Ci sono piatti, ma non appetito

Fedi, ma non scambievole amore

da almeno trecento anni.

C’è il ventaglio – e i rossori?

C’è la spada – dov’è l’ira?

E il liuto, non un suono all’imbrunire.

In mancanza di eternità hanno ammassato

diecimila cose vecchie.

Un custode ammuffito dorme beato

con i baffi chini sulla vetrina.

Metalli, creta, una piuma d’uccello

trionfano in silenzio nel tempo.

Ride solo la spilla d’una egiziana ridarella.

La corona è durata più della testa.

La mano ha perso contro il guanto.

La scarpa destra ha sconfitto il piede.

Quanto a me, credete, sono viva.

La gara col vestito non si arresta.

E lui quanta tenacia mi dimostra!

Vorrebbe viver più della mia vita!

Native

Articoli correlati