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L”idea che irrompe una volta terminata la visione è che questo è il film delle occasioni perdute, in quanto non sono state sviluppati ma soltanto accennati alcuni temi proposti, alcuni dei quali rimasti in embrione, interessanti in certe risonanze ancora attuali anche se la trama è collocata nella Dublino di fine Ottocento.
Il tema del doppio è sicuramente quello centrale. La narrazione nei suoi snodi aderisce troppo ai dettagli, perdendosi nella cronaca, scivolando in un”attualità che non riesce a dare parola alle persone della piccola comunità relegata a lavorare ed a vivere dentro l”albergo, contesto primario nel quale si svolge il film. Sono volti non scavati da un segno, non riconoscibili e non istituenti il gioco tra prossimità e distanza. Il nostro, quindi, è un guardare che spesso non diventa un vedere. E” in un lussuoso albergo che incontriamo il cameriere Albert, in realtà una donna che, per lavorare nella Dublino vittoriana, deve inventarsi un”identità maschile.
La lentezza di cui soffre questa pellicola forse rispecchia la vita claustrofobica di tutte le realtà umane definite dal ruolo lavorativo e chiuse in esso… Per Albert lo spazio ristretto è necessario e forse ineludibile, per far sì che la vera identità non venga alla luce, non si scopra, vista la durezza e la predestinazione a un destino imposto alle donne e non solo da una società che non lascia loro alcuno spazio soggettivo e a chi non fa parte di un” elite sociale o aristocratica.
Il nascondimento di sé, del soggetto che abita Albert, si coniuga in un certo senso con quello degli altri, la cui esperienza relazionale di contatto, di scambi interpersonali, si risolve in cucina, sottolineata da atteggiamenti complici e distanti allo stesso tempo. Molto accade anche nei corridoi delle stanze della servitù a sottolineare come gli spazi fisici e mentali siano ridotte a gabbie di uno ”zoo” sociale.
Questo film perde, strada facendo, la forza espressiva catturata invece dal volto di Albert, mirabilmente proposta allo sguardo dello spettatore come fosse un ritratto che dilaga nello schermo obbligando gli stessi a sentire, vedendo, la persona imprigionata dentro tale ”maschera”.
Ecco in tali sequenze ritroviamo attraverso il nostro perturbamento quella contemporaneità nella quale la vicinanza e la lontananza da sé fungono da catalizzatori, per trasportare nel nostro tempo quel tempo e quelle risonanze di significato che parlano non solo alla donna come appartenenza di genere, ma a tutti noi impegnati a dare senso alla vita, a far emergere e contattare la nostra identità e umanità.
La narrazione di tali tematiche è risolta in racconti di avvenimenti descrittivi senza interagire con la drammaticità di quelle stesse vite raccontate. Prima fra tutte quella di Albert, interpretato da una bravissima Glenn Close calata in un ruolo nel quale prevale una fisicità irrigidita e quasi macchiettistica per dare consistenza alla rappresentazione di una maschera identitaria sociale e psichica, che troverà il suo punto di rottura quando intuisce la possibilità di un legame e quindi di immaginare una vita per sé.
Questo prende corpo attraverso un rapporto che, nel tempo, assumerà pregnanza anche sul piano simbolico.
Il film si avvia verso un finale che viene reso banale e scontato, anche contenendo interessanti indicazioni tematiche, prima fra tutte il prendersi cura dell”altro -e di sé- inteso come nascente. Nascente che comunque resta relegato dentro una finzione che riguarda il non poter essere se stessi, anche nella propria identità di genere, a sua volta chiuso dentro una società i cui codici morali e sociali evidentemente non permettono ciò. Nascente ancora abitato da un”ambivalenza che avvolge i personaggi e li proietta in un futuro amputato perché senza presente.
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