Femmicidi, stupri, violenze domestiche. Sono talmente tante le parole che sono corse sotto queste mani nel descrivere barbare uccisioni di ex fidanzate, stupri efferati e violenze perpetrate ai danni di mogli e figli, che alla fine il rischio è l’assuefazione. Ho urlato talmente tanto contro i giornali e i servizi televisivi che battezzavano ancora una volta con “delitto passionale” il più corretto femmicidio, che la voce si è quasi spenta. Perché alla fine la violenza diventa un buco in cui anche chi è ormai abituata ad ascoltare e a cercare di capire, sprofonda. La violenza diventa “di casa” e ti entra nelle ossa apparecchiando la sua dose di veleno giornaliero per l’amara constatazione che il frutto di tante battaglie scivoleranno via senza lasciare traccia nel futuro di intere generazioni che si ritroveranno in un mondo sempre più violento, barbaro e sessista.
La violenza contro le donne parte da qui, dal fatto che ci riguarda tutte (anche chi non ha subito uno stupro) e riguarda anche gli uomini (anche i non-stupratori), perché è lo specchio di una società: e più questa società regredisce, più la violenza di genere aumenta. Ed è per questo, e in ragione di questa assuefazione, che non capisco come le donne (e gli uomini) che ricoprono oggi ruoli istituzionali, e che quindi ne hanno facoltà diretta, non si alzino in piedi una volte per tutte non per indignarsi nel loro spot di mezzo minuto (come fanno spesso), ma per fare qualcosa di serio. Forse non sono assuefatti/e?
Per questo l’ottima proposta dell’appello partito da Lorella Zanardo, Loredana Lipperini e dal comitato “Se non ora quando”, con la richiesta esplicita di un’Italia che “si distingua per come sceglie di combattere la violenza contro le donne e non per l’inerzia con la quale, tacendo, sceglie di assecondarla”, mi dà lo spunto per gettare ancora una volta lo strale verso un’Italia che si è già distinta da tempo scegliendo di “non” combattere la violenza di genere e di continuare a sostenere tutti quegli stereotipi che alimentano e nutrono questa violenza.
Il femmicidio di Vanessa Scialfa, la ragazza uccisa dal fidanzato perché ha “osato” pronunciare il nome dell’ex durante un momento di intimità, così come il femmicidio di Stefania Noce, uccisa perché aveva “osato” rifiutare l’amore del suo ex fidanzato, dimostrano chiaramente che oltre alla lotta contro la violenza di genere, esiste una battaglia senza la quale la guerra non sarà mai vinta: quella contro la discriminazione che considera la donna come un “corpo” da possedere. Ma tutti questi anni di veline e di prostitute ribattezzate escort – perché fa meno “effetto”, di onorevoli elette per i loro attributi fisici, anni e anni di battute sessiste nei confronti di donne in sedi pubbliche e riprese a tambur battente dai media, hanno scoperchiato il peggio della cultura maschilista della peggiore Italia, sdoganando anche quello che, forse per pudore o per “religioso rispetto”, l’uomo italiano “si teneva dal fare”. E quale colpa più grave ci può essere se non quella di sottovalutare che la discriminazione delle donne è la violenza-madre di tutte le violenze di genere?
Queste istituzioni non solo per anni hanno ignorato facendo finta di non sapere ma hanno loro stesse alimentato un “corpo” femminile espropriato da sé. Chi non ricorda lo stupro-femmicidio di Giovanna Reggiani, uccisa nel 2007, usato come “scusa” per varare i pacchetti sicurezza contro gli stranieri in Italia, tuonando sull’emergenza straniero-stupratore nei giornali e in tv, negli stessi giorni in cui passavano in sordina i dati dell’Istat sulla violenza di genere che dichiaravano che il 70% delle violenze sulle donne si consumavano dentro le mura domestiche? Oggi la realtà ci racconta che l’atteggiamento di fondo non è cambiato e che i veri complici delle morti delle 54 donne uccise nel 2012 (ma anche di quelle uccise negli anni precedenti), sono le stesse istituzioni cui ora si chiede conto perché intervengano.
L’anno scorso è stato approvato, dopo anni (è dal governo Prodi che va avanti) il primo Piano Nazionale contro la violenza in Italia con un testo completamente stravolto dalle premesse iniziali in cui manca un’indicazione nazionale chiara e in cui il generico “sostegno ai centri antiviolenza” si dimentica di specificare i criteri di prevenzione e di contrasto alla violenza di genere, e di imporre agli enti locali di destinare risorse e finanziamenti costanti ai centri che sono uno dei nodi fondamentali della faccenda. Nel testo non vengono esplicitate le responsabilità degli organismi di gestione, la trasversalità degli interventi proposti (sociale, sanitaria, legislativa, giudiziaria), i tempi delle azioni, dei finanziamenti e le modalità di monitoraggio e di valutazione, in un paese in cui gli stessi dati sulla violenza di genere sono disomogenei in quanto lo sviluppo di banche dati nazionali ufficiali non è costante e solo mettendo insieme i dati disaggregati dei centri antiviolenza si riesce ad avere un quadro, più o meno, di cosa succede alle donne.
Sempre l’anno scorso alcune parlamentari si sono dovute mobilitare per riprendere in mano la situazione costringendo l’allora ministra delle Pari opportunità, Mara Carfagna, a reclamare i soldi destinati alla lotta contro la violenza di genere che erano stati “bloccati” dal governo in vista della crisi. Soldi che alla fine sono stati stanziati (18 milioni di euro) ma che, per la maggior parte, non sono ancora stati assegnati alle strutture antiviolenza malgrado i bandi si siano conclusi a novembre (il dipartimento Pari Opportunità sta ancora valutando i bandi di agosto). In Italia ancora adesso esistono 500 posti letto nel centri antiviolenza rispetto ai 5.700 previsti e ordinati dal piano europeo, e ci sono sportelli (vedi l’ospedale San Camillo di Roma) e centri antiviolenza che chiudono i battenti perché i soldi non ci sono, quando invece è dimostrato che se una donna che subisce violenza viene accolta in un centro, difficilmente rischia la vita.
Sono le istituzioni italiane che, sebbene più volte sollecitate, non hanno ancora firmato la “Convenzione Europea per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne” approvata l’anno scorso a Istanbul, ed è l’attuale governo di Mario Monti che ha scelto di non dare una ministra alle Pari Opportunità delegando a questo ministero una già molto impegnata ministra del Lavoro: una ministra, Elsa Fornero che non ha mai preso in mano il “problema violenza” coordinando, come potrebbe fare e come è nelle sue facoltà istituzionali, un gruppo di ministeri ad hoc che potrebbe agire trasversalmente e potentemente sull’emergenza violenza-femmicidio.
Ma un paese che non ha mai istituito, come invece hanno fatto in Francia e in Spagna, un osservatorio di genere sugli omicidi (per conteggiare quanti siano in realtà gli omicidi con movente di genere) e che non è in grado di dare cifre ufficiali su questo fenomeno diventato ora emergenza nazionale, ha davvero un effettivo interesse a risolvere il problema? L’Italia è un paese in cui la violenza domestica – che oggi è l’80% della violenza sulle donne – viene spesso valutata nei tribunali come semplice conflittualità tra coniugi (valutazione che lascia la donne e gli eventuali figli in un incubo a volte peggiore della convivenza); un paese in cui una donna stuprata deve dimostrare la violenza sottoponendosi anche a torturanti valutazioni sul suo profilo personale che ha come conseguenza il silenzio di molte che non denunciano per evitare un secondo supplizio con avvocati che cercano di disegnare una femme fatale che se lo meritava; un paese in cui gli stereotipi di genere sono ancora vissuti sulla pelle delle donne e fortemente presenti nella società che le circonda.
Tutto questo dimostra quindi che le istituzioni italiane non hanno sottovalutato ma hanno scelto di non agire contro la violenza di genere pur avendo tutti i mezzi per farlo e questo le rende irrimediabilmente complici dello stato attuale. Da sempre sul corpo delle donne si gioca un potere che non ha colore.