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Senza Titolo: rinascere dal teatro

Senza Titolo 3: in scena Eleonora Danco, alla ricerca di un teatro generativo. Un attraversamento delle zone oscure della vita, tra dramma e comicità. Di [Patrizia Vincenzoni]

Senza Titolo: rinascere dal teatro
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9 Agosto 2012 - 21.54


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“Senza Titolo 3” , l’inedito di Eleonora Danco, andato in scena in anteprima ai Giardini
della Filarmonica di Roma, intreccia tre racconti teatrali in un crescendo di fisicità, filo comune di tutta l’opera di questa intensa attrice. La sua proposta è proprio di un teatro fisico, non solo nel senso della definizione che denota e specifica, ma come idea e percezione di noi stessi coniugata con quello visto e sentito.

Il quadro iniziale presenta ragazze in bikini sedute e sdraiate sul palcoscenico, lo sguardo di ognuna di loro riproduce una fissita” interrotta solo dal gesto della sigaretta portata alle labbra. Le canzoni di Peppino Di Capri fanno da colonna sonora e l”insieme produce un effetto straniante, che fissa ancora di più quel femminile in un ruolo passivo e compiacente. L”entrata in scena della Danco sembra essere una rottura con la situazione iniziale e nello stesso tempo una continuazione per permettere alla vitalità di riprendere il suo scorrere. L”arrancare dell”attrice, strisciando, alla ricerca di una posizione sul palco, appare quasi come un percorso di nascita.

L”autrice-attrice propone un attraversamento nelle zone oscure della vita, ci conduce di fronte a quello che sembra un fiume umano che si muove in un andare continuo tra figura e sfondo, dal quale emergono, apparendo, persone, voci, dialoghi veloci, urlati, parole sparse, immagini in movimento che sembrano fotografie.

Tutto ciò si fa corpo attraverso la mediazione del racconto della Danco.
Sono personaggi in cerca di identita” e il fatto che riescano ad apparire consente loro di essere visti, di esistere in un”unicita” dell”identita” personale che ricorda essere essenzialmente di carattere espositivo e relazionale.

Teatro ”generativo”, potremmo dire, come fosse una madre che, desiderando questa irripetibile e esclusiva presenza, incontra per prima l”esistente, alla quale appare.

Teatro fisico a sottolineare l”aspetto corporeo dell”identita”, che in un gioco di rimandi, la Danco incarna e a sua volta appare per essere vista e riconosciuta nella sua identita” scenica.

La relazionalità come esperienza di base per entrare nell”intimo dei personaggi in un crescendo di vicinanza e approssimazione che restituisce alla parola, totalmente calata nel contesto, la sua funzione sovversiva perché è corpo e si fa corpo”. In questa unione fra questi linguaggi la vita raccontata, urlata, è e si fa estrema, non vuole uscire di scena, ebbra di una disperata e struggente vitalità, di cui l”attrice si fa portavoce, rinunziando nello stesso tempo alla sua presenza , per favorire la percezione dell”idioma psichico di cui e” portatrice nel qui-e-ora della rappresentazione.

Il suo essere in scena e” evocativo sin dall”inizio : vederla perimetrare i margini del palcoscenico con il suo andare verso qualcosa di inesprimibile, cercare un punto di appoggio,un centro, al quale poi rinunzia.

Vederla arrancare prona, strisciante,rotolarsi nello ”spazio senza” ancora vuoto di contenuti del contesto fisico e non solo, acuisce la percezione e la preparazione, anche a chi guarda e vuole vedere, a lasciare ogni strada già conosciuta, rassicurante.

Così la vediamo (e ci sentiamo) intercettare da chi vuole emergere e farsi narrare ed esistere, quindi, nella propria umanità. La compassione, il patire con l”altro, portata all”estremo.

Memoria del corpo che con urgenza emotiva si fa movimento dell”inconscio,il corpo che sperimenta linguaggi inediti e si fa ”vedere” , per quello che e” ed esprime,parola che si fa materia, comunicazione ab initio.

In una sorta di apnea psichica, aiutata dall”assenza di luci che definirebbero una vitalita” percettiva dissonante con il testo, la vediamo costruire sculture fisiche estraniate, che cercano di ricomporre una dissociazione, di risanare ferite, di stabilire contatti e dialoghi con figure umane ancora vaganti nel contesto drammaturgico.

Quando prendono la parola a volte il dramma si interseca con la comicità, e questo sorridere diventa esperienza improvvisa e riflette la disperazione che a volte diventa, forse suo malgrado ironia.

E” un mondo relazionale affollato, pronto ad apparire, quello che la Danco ci riesce a far ”sentire”, umanità sempre drammaticamente attuale nella sua difficoltà ad esistere e a trovare un senso, una promessa.
Restano sospesi fra il bisogno di certezze e la possibilità di attraversare nuove domande, nuove intuizioni.

Partendo dall”unicità”, dalla intimità nella quale vivere la vita, queste tracce umane disegnano comunque vecchi e possibili percorsi che racchiudono rimandi di significato piu” generali, universali.

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