Marilyn e le altre | Giulia
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Marilyn e le altre

'Una carrellata tra le mostre europee d''arte e di foto di donne, sulle donne: tasselli di esistenze femminili con molte tracce in comune. Di [Maria Cristina Serra]'

Marilyn e le altre
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13 Novembre 2012 - 23.39


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Nella stagione del nostro disincanto, nel bel mezzo di una crisi infinita, che va oltre la dimensione economica, una ventata di cultura, declinata in tutte le sfumature del rosa, ha attraversato l’estate e l’autunno parigino, diffondendo una sensazione di energia creativa contagiosa. Molteplici eventi, mostre d’arte e di fotografie si sono susseguite nei Musei e nelle Gallerie, mettendo in luce un universo complesso, tradotto in una varietà di linguaggi mai chiusi in stretti confini, per scandagliare i grovigli intrigati del sentire. Una geografia estesa per immagini, pensieri ed emozioni, che hanno lasciato orme sulle quali proseguire.

Il Museo Marmottan ha reso omaggio alla “stella filante dell’Impressionismo”, Berthe Morisot, attraverso un’importante retrospettiva che ha indagato a fondo i motivi della sua pittura, ritagliando in un angolo il suo “romanzo” di musa di Manet e di una presunta “felicità domestica”, sotto cui vibrava il fuoco e la lacerazione, appena sussurrata, della sua passione soffocata in conformità con le convenzioni sociali dell’epoca. La sua bellezza malinconica, dallo sguardo penetrante e inquieto, fu ripetutamente ritratta da Edouard Manet con grand’uso del nero, come una rivelazione speculare di quel buio dell’animo così ben dissimulato sotto le apparenze da “Gran Borghese”, inventore della Modernità, deciso a mediare le complicazioni della vita e a dialogare in codice con la sua modella.

Sono invece la freschezza delle tinte pastello, le pennellate rapide e sfumate, intrise di luce, a caratterizzare la pittura di Berthe Morisot. La padronanza della composizione, sotto infinite trasparenze che spesso si dissolvono in forme incerte, quasi astratte, rivela un’originalità e una tensione artistica straordinaria. “La sua peculiarità fu di vivere la sua pittura e di dipingere la sua vita”, scrisse P. Valéry. La sua normalità di convivere con le contraddizioni di un amore tormentato fu risolta nel 1874 sposando l’altro fratello Manet, Eugéne, per uscire da una situazione descritta “insostenibile da ogni punto di vista”.

Alla sua morte, a 54 anni, i suoi amici Renoir, Monet, Degas e Mallarmè organizzarono una mostra con 400 sue tele e disegni, consacrandola come “Pittrice”, a risarcimento della dicitura ”senza professione”, bollata sui certificati di matrimonio e di morte.

Epoca e destino ben diversi per la fotografa Eva Besnyo, artista dell’avanguardia degli anni ’30, innovatrice di canoni estetici in cui astrazione, costruttivismo e poesia si condensano meravigliosamente. Alla sua opera e alla sua lunga vita come fotogiornalista impegnata a documentare i cambiamenti della Storia, il Museo Jeu de Paume ha dedicato una dettagliata mostra, “Eva Besnyo, 1910-2003: L’image sensible”, ripercorrendo la sua opera con foto, documenti e video. L’allestimento ha spaziato lungo tutte le tappe migratorie della “Gran dama della fotografia” nella sua costante ricerca di un equilibrio perfetto tra forma e contenuto. Dalla formazione nella nativa Ungheria (1910), alla fondamentale esperienza berlinese (’30), fino all’approdo (’33) nell’Amsterdam della rivoluzione architettonica ed artistica di Mondrian e di Gerrit Rietveld, per sfuggire alle persecuzioni naziste. Lì trovò un contesto ideale di grande effervescenza intellettuale, “dove gettare uno sguardo nel nostro tempo, vissuto con una scelta di vita bohémienne e da libera pensatrice”. C’era la determinazione a diventare una brava fotografa, coniugando l’obiettivo di emancipazione con la passione per un mestiere da plasmare a sua misura.

Il bagaglio che si porta dietro da Budapest è rilevante: come l’insegnamento di André Kertész a cogliere l’essenza della realtà per “reinventarla”; così come le teorie di Làszlò Moholy-Nagy, che nell’apparecchio fotografico vedeva “l’aiuto più attendibile al principio di una visione oggettiva, di ciò che è otticamente vero, prima di poter arrivare ad una qualunque posizione soggettiva”. L’autoritratto della Besnyo (’31) è la giusta introduzione al percorso espositivo: “io sono tutt’una con la mia Rolleiflex, non ho altra scelta”, diceva.

La foto della sorella Magda in costume nero di lana e scarpette bianche con i tacchi, piegata dal vento, con i capelli a coprirle il viso, così come i corpi abbracciati, stesi al sole del lido di Wannsee, esprimono la normalità e la quiete dei soggetti, interpretate con un audace punto di vista. Di grande impatto sociale sono le foto dei minatori, dei lavoratori metallurgici, dei vecchi adagiati sulle panchine. Le ombre e le luci della vita si riflettono metaforicamente fra i rami degli alberi spogli e fra i riflessi dei ciottoli bagnati dalla pioggia. Il “Piccolo nomade col violoncello” più grande di lui è il manifesto della sua poetica. Le foto sulle rive del Danubio e del lago Balaton fissano l’intuizione dei dettagli che si combinano nell’insieme; quelle “su strada” dalle inconsuete prospettive e diagonali, definiscono il suo registro stilistico e la sua geometria dello spazio. Il suo fil rouge lega insieme la “Nuova Visione” marxista della realtà, la sperimentazione russa e la Bauhaus, la grammatica visiva di Moholy- Nagy e di Rodchenko, in una rielaborazione priva di dogmatismi e ricca di idealità. Le successive rappresentazioni olandesi conciliano la delicatezza delle antiche tradizioni con l’eccezionalità della rivoluzione architettonica introdotta dal movimento di De Stijl. E’ la sintesi della sua progettualità artistica: la razionalità che si specchia nell’utopia e viceversa. Infine, la sezione dedicata al suo impegno femminista nel movimento “Dolle Mina”, negli anni ’70, a concludere una retrospettiva destinata a rimanere nella memoria.

Alla Maison Européenne de la Photographie due artiste, passate dal palcoscenico alla foto, hanno incrociato il loro immaginario: Alice Spring e Charlotte Rampling.

Nel 1947 la giovane attrice teatrale di Melbourne, June Browne, aveva sposato il fotografo allora emergente Helmut Newton; ma solo molti anni dopo, nel ’70, per sostituirlo a causa di una breve malattia nel pieno della campagna pubblicitaria per le sigarette Gitanes, abbandonò definitivamente il palcoscenico per diventare a sua volta fotografa con lo pseudonimo di Alice Spring. La MEP (fino al 18 novembre) ha riunito una galleria di immagini simboliche della sua carriera nella pubblicità e nella moda, caratterizzate da forti contrasti e distacchi emotivi, spregiudicatezza della messa in scena, sovente evocativa di un erotismo senza filtri. Ma sono l’eleganza classica delle inquadrature, le luci, i frammenti dei decori, le atmosfere velatamente dark, a bilanciare la latente aggressività delle modelle, con le quali June Newton instaura relazioni “simili a quelle di un camaleonte” per adattarsi alla loro personalità. Sono i ritratti delle “celebrità” (Françoise Sagan, Roman Polanski, Federico Fellini, Sting, Sonia Rjkiel, Christian Lacroix, Gerhard Richter, Roy Lichtenstein, Keith Haring) a far trapelare le sue sfumature d’animo. E’ la malinconia palese, dietro al successo e allo splendore, a mostrarci lo spirito sensibile di Yves Saint Laurent, ritratto nel ’78, catturato nell’istante raro in cui ci si abbandona ad un altro da noi.

Il diario intimo di Charlotte Rampling (da Parigi a Lille, fino al 16 novembre, e poi all’Auditorium di Roma dal 13 gennaio 2013) viene sfogliato nella mostra “Charlotte Rampling- Album segreto”, rivelando i chiari/oscuri di un’attrice enigmatica, senza tabù e ricca di magnetismo, indimenticabile amante perduta de “Il portiere di notte” di Liliana Cavani, e qui sorprendente fotografa.

Scorrono le immagini dei suoi reportage in Estremo Oriente, nell’Europa dell’Est, nella Cina prima dell’esplosione economica del capitalismo di stato. Paesaggi urbani, ritagli di vita quotidiana di grande intensità e satura di dettagli, umanità che si muove in flussi disordinati, ai quali si contrappongono gli spazi aperti e desolati della provincia americana profonda. Ci sono poi i momenti più privati, gli affetti, la vita con i figli, i giochi in giardino, i gatti sul divano, accompagnati dalla suggestiva colonna sonora composta dall’ex-marito Jean Michel Jarre. A parlarci di lei e della sua capacità a trasformarsi in un’infinita variazione di se stessa sono i “Grandi della fotografia”: Bettina Rheims (“la femme fatale”), Helmut Newton (“l’angelo azzurro”), Peter Lindberg (“la femminilità”), Alice Spring (“l’inquietudine”), Cecil Beaton (“il romanticismo”), Paolo Roversi (“la maturità”) e David Barfly (“il mistero”).

Sorprendenti acrobazie e capacità di trasformarsi davanti all’obiettivo in una serie di infinite variazioni di se stessa che la ricollegano ad una diva del passato dalla vita meno fortunata: Marilyn Monroe. Il suo mito rimane sospeso nel tempo, cristallizzato nel mistero che ha accompagnato la sua morte e nella malinconia che ha circondato la sua vita di star dalla fragilità di una farfalla. Nel cinquantenario della sua scomparsa, molte pubblicazioni e mostre hanno rievocato la storia di Norma Jeane Baker, bambina rifiutata, diventata in fretta donna seducente e desiderata, ma interiormente fragile, timorosa di mostrare la sua ingombrante intelligenza. “De Norma Jeane a…Marylin” (fino al 30 dicembre) è un’expo allestita in un piccolo spazio accogliente del Marais, gestito con grazia, competenza e passione da Julia Gragnon (figlia d’arte e lei stessa fotografa), che ha radunato spezzoni decisivi della vita artistica di Marilyn, attraverso le immagini dei fotografi che l‘hanno immortalata. In ordine cronologico si susseguono i “fermo-immagine” della sua esistenza dagli anni Quaranta ai Sessanta, catturati da Bert Stern, Milton H.Green, Andrè de Dienes, Cecil Beaton, Bill Ray, Alfred Eisenstaedt, Sam Shaw.

C’è la giovane provinciale, desiderosa di riprendersi una rivincita sul destino, in perenne lotta fra l’ansia di regolarlo e la fatalità di esserne travolta; l’attrice affermata, consapevole del suo fascino, che sa giocare con la sensualità generosa; la donna malinconica in cerca di brandelli di sicurezza. Meravigliosa davanti all’occhio di Stern, Beaton, Green, nuda con la vistosa cicatrice di un intervento alla cistifellea, a simboleggiare le mille ferite dell’animo nell’ultima seduta fotografica con Stern. Frammenti di una vita che ci rimandano con la memoria alla mostra-evento “La Dernière Seance” del 2006 al museo Maillot e a “Fragments” pagine del suo diario, lettere, poesie, riflessioni, appuntate su fogli occasionali dall’artista dal ’48 al ’62, con la bellissima prefazione di Antonio Tabucchi: “Chi è troppo sensibile e intelligente conosce i rischi che comporta la complessità di ciò che la vita sceglie per noi e ci consente di scegliere… potremmo essere tante cose, ma la vita è una sola e ci obbliga ad essere solo una cosa, quella che gli altri pensano che noi siamo”.

Difficile per lei far convivere il sex-symbol con la paura della solitudine, con il lacerante senso di inadeguatezza. Un’esistenza su due binari. “Vita, ho in me entrambe le tue direzioni, restando come appesa all’ingiù”, scriveva con una calligrafia disordinata, con cancellature ricorrenti, inframmezzate da parentesi, disegnini, frecce che rimandano avanti e indietro, con una scrittura spezzata, flash improvvisi, schegge luminose di scintille emotive, scoprendo una donna alla continua ricerca di un improbabile equilibrio.

Nella primavera del ’58, Marilyn, a 32 anni annota sul suo diario: “A partire da domani mi prenderò cura di me, dato che è tutto quello che ho veramente…Ho cercato di ribellarmi a quello che il mio essere sapeva esser vero… credo di essere molto sola – la mia mente vaga. Ora mi vedo allo specchio, fronte aggrottata – se mi avvicino vedo – quello che non voglio sapere – tensione, tristezza, delusione, i miei occhi spenti, le guance arrossate di capillari che sembrano fiumi su una cartina – i capelli come serpenti. La bocca è la cosa che più mi rende triste, insieme agli occhi senza vita – C’è una riga scura tra le labbra, con il disegno di onde sollevate dal vento durante una tempesta burrascosa – dice di non baciarmi – non ingannarmi sono una ballerina che non sa ballare”.

I mesi a cavallo tra la fine del ‘60 e l’inizio del ’61 sono terribili, segnati anche da un ricovero, forzato con l’inganno, nell’ospedale psichiatrico Payne Whitney. Così commenterà Marilyn: “I dottori sono interessati solo a quello che hanno studiato sui libri, forse la sofferenza di un essere umano vivo potrebbe insegnarli qualcosa di più, ho avuto la sensazione invece che si preoccupino di mantenere la disciplina e che dimettano i pazienti solo e quando si sono arresi”. Poi, la risalita. Lo sguardo è rivolto al futuro, al lavoro, soprattutto perché “il mio lavoro è l’unica speranza concreta che ho”, come scrive il 19 dicembre del ’61 al fedele amico Strasberg. “Come sai, da anni lotto per trovare una certa sicurezza emotiva, ma senza grande successo, per numerosi motivi diversi. Solo negli ultimi mesi, ho fatto progressi che mi lasciano sperare di aver finalmente trovato sotto i piedi un po’ di terraferma, invece delle sabbie mobili in cui sono sempre vissuta…”.

Ma il destino, la notte del 5 agosto del ’62, regolò in modo diverso i conti con lei.

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