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Le parole sono pietre

Pamela, Jessica... morte in solitudine e vilipese da troppi e inutili particolari [di Roberta Serdoz]

Le parole sono pietre
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8 Febbraio 2018 - 21.08


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Certamente, della ragazzina del frusinate di 14 anni abbiamo scritto più di quanto necessario: dall’istituto tecnico che frequentava alle parole del tema elaborato in classe; dal lavoro del padre alla piccola frazione dove viveva. Mancava solo mettere nero su bianco nome e cognome per identificarla! Dettagli assolutamente inutili, uno scivolone che si poteva evitare senza nulla togliere al diritto di ogni cittadino di essere informato o alla costruzione di un buon articolo o servizio televisivo. Invece, telegiornali nazionali, agenzie di stampa e quotidiani hanno scelto, ancora una volta, il voyeurismo che  qualcuno in rete ha già definito giornalismo pornografico. Stessa cosa, sia pur in termini diversi, per Pamela definita una diciottenne “emarginata”, perché in disintossicazione in una comunità di recupero, che scappa e vende il proprio corpo per 50 euro, per acquistare una dose di eroina. E ancora, l’intervista all’uomo che la incontra per strada,  la porta nel garage per consumare quel rapporto comprato, poi, dopo aver letto la notizia della sua morte, si rammarica per non averla salvata. Il cliente che si trasforma in buon samaritano. La sua, piaccia o no, resta una testimonianza importante. Lui è parte attiva in quanto accaduto, ignorare quel racconto sarebbe stato un errore. E’ un testimone oculare.  La domanda è: come farlo senza precipitare in una squallida empatia o in odiosi stereotipi?

Le parole sono come le pietre, dipende da come vengono usate. Possono costruire case e città oppure arrivare ad uccidere. Il buon senso resta sempre il nostro confine invalicabile. Un aiuto può arrivarci da due grandi maestri del nostro giornalismo. Per Indro Montanelli servono solamente tre regole, semplici per un giornalismo eticamente corretto: prima, guadagnarsi la fiducia del lettore scrivendo sempre tutta la verità e se ci si sbaglia chiedere scusa immediatamente; seconda, scrivere con il linguaggio semplice del lettore e non con quello dell’Accademia; e infine, la più importante, la terza, non far mai sentire al lettore la propria opinione. Enzo Biagi, invece declinava cosi la professione: il “fatto” è l’unica certezza che abbiamo, non ho mai inseguito uno scoop, ho solo raccontato ciò che vedevo. Forma e sostanza, dunque, per evitare ipotesi suggestive e banalizzazioni.

Cosa aggiunge sapere se una vittima, una sopravvissuta o il potenziale assassino avessero indossato l’orecchino al naso o la gonna corta, o fossero tatuati dalla testa ai piedi?  E’ rilevante sapere se la sera prima fossero andati a ballare o avessero bevuto un bicchiere di troppo? Attenuanti e giustificazioni alterano i racconti che inevitabilmente si trasformano in stereotipi. Di queste giovani donne non conosciamo le loro storie familiari, il loro passato; non sappiamo perché abbiano intrapreso quella strada e se la loro fosse una scelta consapevole.  Il tratto che le contraddistingue è la fragilità delle loro condizioni di vita: il centro di recupero per uscire dalla tossicodipendenza per una, l’abbandono da parte dei genitori e la vita in casa-famiglia per l’altra. Strutture di accoglienza che, a quanto pare, non sono riuscite a fare al meglio il loro lavoro. Tanto quanto noi che con taccuini e telecamere abbiamo radiografato e messo in mostra anche ciò che nulla aggiungeva ad una corretta informazione. 

 

Qui invece l’appello delle Commissioni pari opportunità di Fnsi e Usigrai

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