Mio marito, quella "bestia strana" in maternità | Giulia
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Mio marito, quella "bestia strana" in maternità

Una storia di quasi 25 anni fa testimonia che la parità reale è sempre e solo una questione culturale. [Di Serena Bersani]

Mio marito, quella "bestia strana" in maternità
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Serena Bersani Modifica articolo

10 Ottobre 2019 - 11.45


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“Sbrigati a partorire, che ti assumiamo”. Sembra impossibile, vero, quando ancora si sentono storie da medioevo di lavoratrici svilite, demansionate, mobbizzate fino a costringerle a licenziarsi per aver osato portare avanti una gravidanza senza nemmeno aver avuto un parere preventivo del proprio capo? Eppure è successo, addirittura nel secolo scorso, ventiquattro anni fa. Estate 1995, incinta di nove mesi, continuavo a collaborare con il giornale in cui ero precaria da anni, quando inaspettata si apre una porta fino ad allora rimasta bloccata. Una porta talmente inaccessibile che, rassegnata alla mancanza di prospettive di assunzione, avevo deciso di avere un figlio senza aspettare una sicurezza lavorativa che forse non sarebbe mai arrivata. E invece, in un momento in cui le edizioni locali di quel quotidiano si espandevano, qualche possibilità si apriva. Furono proprio i capi redattore e il vice direttore della sede di Bologna – tutti uomini – a fare il mio nome per l’assunzione.

Certo, quello era un giornale speciale, come ben sa chiunque sia passato da una delle sue redazioni. Si chiamava “l’Unità” e oggi non c’è più.

Un po’ di ostruzionismo lo trovai negli uffici dell’amministrazione e non fu facile conquistare un contratto uguale a quello degli altri assunti insieme a me. Venne a Bologna da Milano il responsabile del personale e tentò di propormi un contratto a tempo determinato perché non si fidava. Mi disse: “Ma lei starà tutto il giorno al telefono per sapere come sta il bambino e non riuscirà a concentrarsi sul lavoro”. Gli risposi che si sbagliava perché mio figlio aveva anche un padre disponibile a prendersi cura di lui a tempo pieno e quindi sarebbe stato in buone mani. Me ne andai dicendogli che avrei ripreso a lavorare solo se avesse cambiato idea. Passò una decina di giorni, e già mi mangiavo le mani per non aver accettato il contratto a termine, quando mi chiamò per farmi firmare a tempo indeterminato pressato dai colleghi della redazione. Mio figlio aveva 18 giorni.

Lavorare da casa
Ricominciai a lavorare da casa perché, per legge, il contratto subordinato poteva partire solo al compimento dei tre mesi del bambino. In quei mesi feci una vita pazzesca. Allattavo, poi correvo giù per le scale con la carrozzina (non avevo l’ascensore) per portare il bambino da una dada (neppure lei aveva l’ascensore) che lo teneva per il tempo in cui ero impegnata in una conferenza stampa o in un fatto di cronaca. Con i tempi contingentati tra una poppata e l’altra, tornavo a riprenderlo, andavamo a casa, lo allattavo, poi lo mettevo nel marsupio e mi sedevo davanti al computer per tenerlo tranquillo mentre scrivevo. La sera mio marito mi aiutava a togliere il latte (non esistevano ancora i tiralatte elettrici, era una fatica che richiedeva bicipiti allenati) da tenere di riserva per il giorno successivo. Al compimento del terzo mese, quando cominciai a lavorare a tempo pieno l’aspettativa per maternità (era l’unica espressione esistente all’epoca, non si parlava di paternità) la prese mio marito. Il suo capo del personale gli telefonò da Milano per complimentarsi con lui.

L’allattamento di mio marito
Si trattava di una grossa banca con migliaia di dipendenti in tutta Italia. Gli disse che, nella storia dell’azienda, era il secondo ad aver fatto una simile richiesta. Il primo, tra l’altro, era stato costretto perché la moglie era morta di parto. I colleghi e le colleghe, invece, lo guardavano un po’ come una bestia strana, soprattutto quando, tornato al lavoro perché il bambino andava al nido, usufruiva al posto mio delle due ore quotidiane di allattamento. Al giornale credo che nessuno si sia pentito di avere assunto una donna che aveva appena partorito anche perché non mi tiravo mai indietro, facevo la nera e la sera ero spesso tra gli ultimi ad andare a casa.

Questo ricordo – e mi scuso per l’autobiografia – soltanto per dire che penalizzare una lavoratrice perché madre è segno di una mancanza di lungimiranza sconcertante. Che alle soglie del 2020 si leggano ancora storie come quella riportata qualche giorno fa dal “Corriere della Sera” di Milano di una donna minacciata dal datore di lavoro perché voleva tornare legittimamente al suo posto in azienda dopo avere avuto il secondo figlio è incredibile e frustrante. I sindacati contano centinaia di segnalazioni ogni anno di licenziamenti indebiti, pressioni sulle dipendenti perché se ne vadano, estorsione di lettere di licenziamento in bianco, demansionamenti umilianti, mobbing esteso a livello aziendale.

Le leggi ci sono già
In un paese con la natalità al lumicino si continua a perpetrare violenza sulle donne pretendendo di controllarne anche la riproduzione. Le leggi che le tutelano non bastano, ci sono da decenni. Servono occhiali per correggere la miopia dei troppi datori di lavoro che ancora non vedono il valore aggiunto di una dipendente a cui è dovuto di vivere una maternità serena. Un valore aggiunto per la società, ma anche per il loro business.

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